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UNA SVOLTA FRA IDEOLOGIA E TECNICA: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ NEL DIRITTO DEL LAVORO DI INIZIO SECOLO

New Trends in Italian Labour Law

Autori: Franco Carinci ( Professore Ordinario nell'Università di Bologna )
email: carinci@labourlaw.it
Riferimenti: art. 1 ss. Decreto Legislativo 10/09/2003 n.276
Keyword:Diritto del lavoro-Riforma c.d. Biagi
Abstract

L’Autore analizza il d.lgs. n. 276/’03, concentrandosi sulle modifiche dell’assetto delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro e sul nuovo ruolo assegnato dalla legge all’autonomia individuale e collettiva.

The Author comments on new Italian law n° 276/’03.


UNA SVOLTA FRA IDEOLOGIA E TECNICA: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ NEL DIRITTO DEL LAVORO DI INIZIO SECOLO

Sommario [*]: 1. Una legge chiamata Biagi. 2. Stato-regioni. Un approccio “centralistico” e “privatistico”: 2.A. Organizzazione del mercato del lavoro; 2.B. Disciplina dei contratti formativi. 3. Segue: I Titoli II e VI al vaglio della Costituzione e… della Corte costituzionale. 4. Sistema delle fonti e contrattazione collettiva. Una contrattazione “applicativa”, stretta fra legge/decretazione ministeriale e autonomia privata: 4.A. “L’alta regia” del Ministro del lavoro; 4.B. La tipologia dei “rinvii”; 4.C. Il favor per l’autonomia individuale; 4.D. Diritti sindacali e garanzie collettive. 5. Dalla “concertazione” al dialogo sociale. 5.A. Un modello in negativo: “esclusione” delle Confederazioni, “parificazione” delle parti, “prevenzione” di eventuali blocchi negoziali. 5.B. Ulteriore “destrutturazione” della struttura contrattuale 5.C. Il peso comparato dei rinvii ai contratti collettivi: tra vecchi e nuovi regimi, fornitura/somministrazione di lavoro e part-time 6. Il sindacato dei “servizi”: intermediazione, fondi bilaterali per la formazione e l’integrazione del reddito, enti bilaterali. 7. Tipologie contrattuali e normative “trasversali”: 7.A. Certificazione; 7.B. Obbligo di sicurezza; 7.C. Incentivi e “facilitazioni”; 7.D. Sanzioni; 7.E. Norme previdenziali. 8. Lavoro privato e lavoro pubblico “privatizzato”: un ritorno al passato.

1. Una legge chiamata Biagi - Credo d’essere debitore di un chiarimento circa il titolo di questo opus collettivo, reso nel modo impersonale e freddo di un commentario al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, invece che in quello personale e caldo di un esame articolato della “legge Biagi”. Sono stato tentato di far anch’io ricorso al nome di un collega di materia e di scuola, che ha finito per identificare la nuova normativa agli occhi non solo della dottrina ma dell’opinione pubblica; ma non l’ho fatto per una precisa scelta di forma e di sostanza. Di forma, perché si può etichettare una legge col nome del primo proponente, cioè di colui che in tal modo ne acquisisce al tempo stesso paternità e responsabilità finali; ma non con quello di un consulente, per quanto autorevole, che rimane estraneo all’itinerario istituzionale, senza che sia possibile identificarne e distinguerne il preciso apporto, destinato comunque a contare solo se e in quanto recepito dall’attore politico-legislativo. Di sostanza, perché quel che si può sicuramente attribuire a Marco Biagi è il progetto giuridico contenuto nel Libro Bianco, mentre il d.lgs. n. 276/2003 segue di molti mesi la sua morte, sì da render problematico imputarglielo sic et simpliciter, non solo nello spirito ma anche nel dettato.

Per una mala sorte, che dalla sua morte si trasmette alla sua eredità, Marco Biagi si è visto condannato a segnare una svolta drammaticamente enfatizzata con una concorrente speculazione politica da destra e da sinistra: entrambe unite nel giudizio di fatto, di una traumatica soluzione di continuità; disunite, anzi contrapposte, nel giudizio di valore, di una discontinuità positiva o negativa. La svolta c’è stata, ma non senza una qual sorta di sottesa continuità assicurata proprio dalla identità del progetto coltivato da tempo dal giuslavorista bolognese.

Ripetendo quell’autentico miracolo richiesto allo studioso, di uscire non da se stesso ma dal calor bianco della congiuntura, ci sarebbe da rivivere sine ira ac studio l’ultima stagione della flex-security, apertasi nella seconda metà del decennio ’90, che finisce per rimodellare la risposta alla luce della politica comunitaria e della comparazione con le esperienze nazionali degli altri Paesi UE. Secondo questa periodizzazione, come sempre rimessa alla discrezionalità interpretativa, la fase di transizione e apertura è segnata dalla emanazione di due leggi, la l. 28 novembre 1996, n 608 (di conversione del d.l. 1 ottobre 1996, n. 510), che generalizza l’assunzione diretta e la legge 24 giugno 1997, n. 196 c.d. “pacchetto Treu”, che rimodula l’orario di lavoro, incentiva (sulla carta, in mancanza del decreto attuativo) il part-time, vara il lavoro interinale. Rimane sul tavolo il problema dei problemi, che affatica la dottrina e stimola il legislatore, quello di un continuum lavoro subordinato, parasubordinato ed autonomo, caratterizzato da un pericoloso mix fra un rilevante deficit di identità delle fattispecie ed un forte differenziale di incisività delle tutele.

In presenza di una dottrina condannata a dividersi fra uno ius conditum fin troppo spremuto ed uno ius condendum tutt’al più auspicabile, il legislatore dell’ultimo centro-sinistra sceglie il cammino a lui connaturale, di un intervento squilibrato più nel senso della garanzia che della flessibilità: fermo restando, in tutto e in parte, il regime vigente per il lavoro subordinato ne viene creato uno ad hoc per quello parasubordinato ed eventualmente per quello autonomo. Sintetizzando al massimo, il cammino imboccato si svolge secondo un doppio percorso: settoriale e statico il disegno di legge presentato in data 29 gennaio 1997 da Carlo Smuraglia  AS 2049, in materia di “Norme di tutela dei lavori atipici”; globale e dinamico lo Statuto dei lavori di Tiziano Treu, qui considerato nella versione del 25 marzo del 1998.

A fronte di un regime protettivo ingessato, che, qui assai più che oltralpe, contribuisce a riprodurre un mercato del lavoro schizofrenico fra insiders e outsiders, secondo linee divisorie di età, genere, territorio, lo Statuto dei lavori intende fornire una risposta, tributaria alla suggestione del lavoro sans phrase e tradotta nella figura suggestiva di una “concentricità delle (fattispecie e delle) tutele”. L’esistenza di una pluralità di cerchi che insistono con raggi diversi sullo stesso centro rende visivamente percepibile una politica del diritto, garantista ma anche relativamente flessibile: garantista, perché costruita sull’idea-forza del lavoro personale sempre e comunque meritevole di una tutela individuale e, se possibile, collettiva, tale da assicurare una copertura crescente dal cerchio più esterno (il lavoro senza aggettivi) a quello più interno (il lavoro subordinato); flessibile, perché realizzata tramite una graduazione di quella stessa tutela, idonea a sdrammatizzare la mobilità da cerchio a cerchio.

Niente da dire, una bella immagine per una bella politica del diritto. Essa, però, riesce “artificiosa” perché fornisce l’impressione che lo Statuto dei lavori sia costruito su un crescente arricchimento della dote garantista prevista per il lavoro senza aggettivi; mentre la realtà è tutt’affatto diversa, perché è di fatto articolato su un progressivo depauperamento della dote protettiva prevista per il lavoro subordinato dal regime esistente. Comunque, qui interessa sottolineare che la “concentricità” comporta tanto una “moltiplicazione” quanto una “graduazione” delle fattispecie e delle tutele, con tutte le problematiche conseguenti, cosa di cui lo Statuto dei lavori sembra essere consapevole: a fronte di una “moltiplicazione” idonea a produrre sia una maggior rigidità normativa, sia una incertezza attuativa, chiama in causa la contrattazione collettiva per gestire la prima e vara la certificazione per ammortizzare la seconda; a fronte di una “graduazione” tale da realizzare una scala così ripida da risultare impercorribile in discesa e in salita, attenua l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Lo Statuto dei lavori non era destinato a trovare grande fortuna, tanto che lo stesso Tiziano Treu ne stralciò la parte relativa all’art. 18 Stat. lav., facendola oggetto del disegno di legge 3 marzo 2000, AC 6835. E, nel mentre l’ambizioso progetto dello Statuto rimaneva bloccato dall’incrocio dei veti pronunciati da parte della coalizione e della Trimurti sindacale, l’ultima maggioranza di centro-sinistra continuava sulla strada di una flessibilizzazione soft, col d.lgs. 26 novembre 1999, n. 532 sul lavoro notturno, e , rispettivamente, il d.lgs. n. 25 febbraio 2000, n. 61 e il d.lgs. n. 26 febbraio 2001, n. 100 sul part-time, entrambi “facilitati” dall’essere attuativi di due direttive comunitarie, la seconda emanata in forza di un precedente accordo quadro europeo.

Questa politica veniva ripresa, all’insegna di una maggiore flessibilizzazione dal secondo governo Berlusconi, che sbloccava la contrastata attuazione di due direttive comunitarie, entrambe basate su accordi-quadro europei, con il varo del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 sul contratto a termine e del d.lgs. n. 8 aprile 2003, n. 66 sull’orario di lavoro. 

Dello Statuto dei lavori, però, non doveva perdersi ogni eco neppure nella nuova legislatura, non solo e non tanto per il fatto che lo stesso Tiziano Treu lo teneva ben presente, nel “ripresentarlo” all’indomani del cambio di maggioranza, come Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del 22 maggio 2002, pur modificandolo nell’impianto e in qualche contenuto; ma perché lo si ritrova citato e teorizzato in quel Libro Bianco dell’ottobre 2001, destinato a fare da apripista alla legge delega 14 febbraio 2003, n. 30.

Non vi è dubbio che sia proprio Biagi, coautore insieme a Tiziano Treu dello Statuto dei lavori, a recuperare e valorizzare la vecchia idea, ribadendo la forma già vista: «dunque partendo dalle regole fondamentali, applicabili a tutte le forme di attività lavorativa rese a favore di terzi, quale che sia la qualificazione giuridica del rapporto, sarà poi possibile ammettere, per ulteriori istituti del diritto del lavoro, campi di applicazione via via più circoscritti, un sistema di cerchi concentrici, con una tutela che si intensificherà a favore di un novero sempre più ristretto di soggetti». Solo che l’idea non è più collocata in un articolato normativo completamente dedicatovi come lo Statuto dei lavori, esclusivamente incentrato sugli aspetti legali, attento al consenso sindacale, preoccupato in primis di assicurare un regime protettivo per il lavoro parasubordinato, seppur nell’ambito di un discorso di reciproco avvicinamento con quello del lavoro subordinato, sì da renderne meno rigido il confine; bensì è situata in un testo progettuale, tipicamente caratterizzato da un continuum strumentale tra gli obiettivi comunitari di adattabilità/occupabilità e profili giuslavoristici, deciso a ridimensionare il ruolo condizionante del sindacato, finalizzato, in primis, a rendere il sistema più flessibile. Ma qui sta il punto, perché tale risultato è conseguito non tramite una deregolazione più o meno spinta, bensì una riregolazione che rivoluziona il continuum lavoro subordinato, parasubordinato, autonomo, facilitando i decentramenti e moltiplicando i rapporti atipici, onde rendere gli snodi al tempo stesso più facilmente e sicuramente “vendibili” sul mercato del lavoro.

Sicché, alla fin fine, la dizione più esatta sembrerebbe essere quella di Statuti dei lavori; e l’immagine quella di un cerchio a spicchi, ciascuno dei quali ben battezzato, definito, disciplinato rispetto a cui il recuperato istituto della certificazione finisce per svolgere un duplice ambiguo ruolo, cioè non solo di asseverare nome e cognome dei rapporti prescelti, ma anche di permettere una certa dose di “derogabilità” dei loro confini e regimi. D’altronde, se è vero che l’acquis garantista del lavoro subordinato pare essere lasciato immodificato, eccezion fatta per l’art. 18 dello Statuto; è anche vero che la facilitazione dei decentramenti e la moltiplicazione dei rapporti atipici sullo snodo fra lavoro subordinato e lavoro parasubordinato contribuisce a frantumare, da un lato, l’impresa “tipica” (con un suo organico dimensionato al “ciclo produttivo”) e, dall’altro, il rapporto “tipico” (a tempo indeterminato e pieno), dando vita ad un processo di destrutturazione sistemica.

Non sarebbe corretto, però, ignorare che il confronto deve essere condotto fra l’intero “lascito” del Ministro Treu - quale costituito dal “pacchetto” licenziato nel 1997 e dallo Statuto dei lavori del 1998 - e il Libro Bianco del 2001. Così facendo un certo continuum nella politica prescelta emerge chiaramente; in primis, per l’idea sottostante di una flex-security destinata a produrre sul medio periodo un accresciuto tasso di attività e di occupazione secondo quanto richiesto dagli obiettivi comunitari; e per la strumentazione utilizzata, tesa a moltiplicare i canali di accesso al lavoro, con una “dote” in termini di tutela, rafforzata per le collaborazioni coordinate e continuative e, rispettivamente spostata dal rapporto al mercato per gli altri contratti “precari”.

Certo, quello che conta non è l’intento confessato ma l’effettivo risultato conseguito, come reso e articolato nel prodotto legislativo. E questo sarà l’oggetto del presente lavoro, che però andrà letto, prendendo sì atto dell’indubbio salto di qualità - nel pur percepibile continuum -, riconducibile al radicale cambio nella maggioranza parlamentare di riferimento; ma senza sottovalutare un intero contesto di rigidità, ereditato dal passato o attivato nel presente: la constatata impraticabilità di una mobilità fra insiders e outsiders, per via di una attenuazione delle garanzie in uscita applicabile ai primi; la collaudata resistenza centralistica del sistema politico/burocratico e sindacale; la conclamata inefficacia ed ineffettività della presenza pubblica; la “carsica” divisione strategica fra le Confederazioni, accentuata dalla  stessa radicalizzazione di una alternanza poco e mal digerita. Divisione, questa, che spazia dal tipo di rapporto col quadro politico allo stile  e contenuto della concertazione; dall’atteggiamento nei confronti di una legge regolatrice della rappresentanza/rappresentatività al modello condiviso della struttura contrattuale collettiva; dal giudizio sul salario “variabile” al modo di atteggiarsi nei rispetti degli enti paritetici.  

Nel passaggio dal Libro Bianco alla  legge delega n. 30/2003 e al d.lgs. n. 276/2003, l’impeto e il respiro del progetto iniziale si perdono strada facendo, fra cui: la proposta di mettere in comunicazione i due mercati degli insiders e degli outsiders tramite una modifica dell’art. 18 Stat. lav.; la lettura caricaturata in senso regionalista del nuovo Titolo V della Costituzione e la rivisitazione della struttura contrattuale a pro della contrattazione decentrata; la consapevolezza di una correlazione inscindibile fra tutela sul mercato e pre-costituzione di una dote di “supporti sociali”.

Il che è testimoniato dallo stesso difficile iter legislativo. L’originario disegno di legge 15 novembre 2001, n. AS 848 è stato condannato a perdere per strada più di un pezzo significativo, mettendo capo ad un testo stralcio AS n. 848-bis nel suo progetto complessivo: a cominciare da quello contestatissimo riguardante l’art. 18 Stat. lav.; e, a finire, con quelli relativi agli incentivi all’occupazione ed agli ammortizzatori sociali. Una volta approvato dal Senato il ddl. n. 848, è stato modificato dalla Camera (disegno di legge AC n. 3193) riapprovato dal Senato (disegno di legge AS 848 B) divenendo la legge 14 febbraio 2003 n. 30. Da qui l’attività ministeriale di traduzione della delega, che ha portato alla emanazione del d.lgs. n. 276/2003

Se è pur sempre possibile rintracciare nell’impianto e nel contenuto del testo legislativo licenziato il debito contratto nei confronti degli autori del Libro Bianco, a cominciare da Marco Biagi, è difficile imparare dall’esterno quanto di quel testo sia stato preconfezionato prima della sua morte. Non pare possibile, però, imputargli né la scelta politica del metodo, né, tanto meno, la validità tecnica del risultato: almeno all’indomani della sua dolorosa e traumatica uscita di scena, sarebbe stato meglio apprestare una task force in grado di gestire, con la autorevolezza e competenza richiesta, sia la fase di predisposizione della legge delega, sia - specialmente - quella successiva di attuazione della delega medesima; sì da evitare la redazione di un decreto legislativo a dir poco insufficiente nella sua coerenza sistematica e nella sua correttezza concettuale.

E, ritornando alle battute di apertura, per questo, se non fosse altro, ho avuto e mantengo una forte ritrosia a ribattezzare il d.lgs. n. 276/2003 come legge Biagi.  

2. Stato-regioni. Un approccio “centralistico” e “privatistico” - All’analisi della legge delega n. 30/2003 è già stato dedicato un numero della collana che finisce per far da premessa a questo commentario del decreto legislativo n. 276/2003. Almeno di massima è riscontrabile un grado elevato di conformità alla legge del decreto; grado che, di regola, pare sufficiente a mettere a riparo quest’ultimo da eventuali eccezioni di eccesso di delega visto l’orientamento pressoché costante della Corte costituzionale, solita ad utilizzare parametri assai poco rigidi.

Nel passaggio dalla legge delega al decreto legislativo gli articoli diventano, da dieci, ottantasei, sistemati su nove titoli, sì da dare il senso di un corpus ampio e dettagliato. Procedendo oltre il primo impatto quantitativo, con un sia pur rapido esame del contenuto, è possibile cogliere quel che ne costituisce il tratto caratterizzante, cioè di essere un testo fortemente centralistico e regolativo: centralistico perché, nel contesto di un ricorso sistematico al rinvio, il primato assoluto resta, nella gerarchia delle fonti, a quelle statali, cioè alla legge nazionale; e, nella gerarchia dei protagonisti, al Ministero del lavoro; regolativo, perché nell’ambito di un uso a tutto campo del privato, l’effetto prioritario risulta costituito da un eccesso di regime di soggetti, rapporti, istituti.

Un duplice tratto, questo, che appare chiarissimo nel rapporto Stato-regioni, come concepito e tradotto nei due Titoli dedicati al classico terreno di incontro/scontro, il II («Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro») ed il VI («Apprendistato e contratto di inserimento»). Certo viene pagato un tributo formale al nuovo Titolo V ex l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3: l’art. 1 che apre il titolo I («Disposizioni generali»), al suo comma 3, fa salve «le competenze riconosciute alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano dallo statuto e dalle relative norme di attuazione, anche con riferimento alle disposizioni del Titolo V, parte seconda della Costituzione per le parti in cui sono previste forme di autonomie più ampie rispetto a quelle già attribuite»; e l’art. 3 che è a capo del Titolo II, al suo comma 1, mantiene ferme «le competenze delle regioni in materia di regolazione e organizzazione del mercato del lavoro regionale».

   2A. Organizzazione del mercato del lavoro - Da qui il primo indizio di quanto poi confermato successivamente, che, cioè, l’estensore del Titolo II dia affatto per scontato il rapporto Stato-regioni incorporato nell’assetto previgente al nuovo Titolo V, con riguardo al “canale pubblico” di accesso al mercato del lavoro governato a livello regionale; tant’è che lo assume a sfondo più o meno immodificato, com’è evidente dalla stessa citata clausola di salvaguardia di cui all’art. 3, comma 1, la quale mantiene altresì ferme le «funzioni amministrative attribuite dal decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469» alle province.

Ciò non vuol dire che ritiene tale canale efficace ed efficiente, tutt’altro, perché persegue l’obiettivo di creare un parallelo “canale privato”, controllato a livello centrale, compensativo del primo, con un prevedibile e previsto effetto “spiazzamento”. E’ il Ministero del lavoro, elevato a vero e proprio regista, a giocare un ruolo di governo dei nuovi protagonisti sul mercato del lavoro, confinando le regioni ad un ruolo marginale, attuativo, procedimentalizzato.

a) Accanto ai datati servizi per l’impiego fanno la loro comparsa le agenzie per il lavoro, nella veste, destinata a risultare prevalente, di società per azioni, con una gamma amplissima di potenziali attività: la somministrazione “generalista e specialista”, l’intermediazione; la ricerca e selezione del personale; il supporto alla ricollocazione professionale. Quel che qui importa è sottolineare come la “regia” sia quasi totalmente ed esclusivamente accentrata presso il Ministero del lavoro, che, in base ad «un unico regime di autorizzazione» (art. 3, comma primo, lett. a), istituisce un «apposito albo» (art. 4, comma 1), stabilisce «le modalità di presentazione della richiesta di autorizzazione …, i criteri per la verifica del corretto andamento dell’attività svolta cui è subordinato il rilascio dell’autorizzazione a tempo indeterminato, i criteri e le modalità di revoca dell’autorizzazione, nonché ogni altro profilo relativo all’organizzazione e alle modalità di funzionamento dell’albo delle agenzie per il lavoro» (con decreto da emanare entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto, art. 4 comma 5); concede prima «l’autorizzazione provvisoria», poi quella «a tempo indeterminato» (art. 4, comma 2). Nel decidere circa l’autorizzazione, il Ministero deve tener conto dei requisiti giuridici e finanziari fissati puntualmente e vincolativamente dall’art. 5, sia come requisiti comuni a tutte le agenzie (comma 1), sia come particolari delle agenzie di somministrazione “generaliste” (aperte a tutte le attività, esercitabili con contratti di lavoro a tempo indeterminato e determinato, comma 2) e “specialiste” (chiuse ad attività tipizzate, effettuabili con contratti di lavoro a tempo indeterminato, comma 3), di intermediazione (comma 4), di ricerca e selezione del personale (comma 5), di supporto alla ricollocazione professionale (comma 6).

Tocca poi sempre al Ministro del lavoro emanare «una disciplina transitoria e di raccordo» per «le società di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, ricollocamento professionale già autorizzate ai sensi della normativa previgente» (entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto, art. 86, comma 6).

Niente da fare e dire per le regioni in materia, se non per quanto riguarda uno dei requisiti comuni, cioè «la disponibilità di uffici in locali idonei allo specifico uso e di adeguate competenze professionali», dove, peraltro, è prevista una complessa procedura radicata pur sempre a capo del Ministro del lavoro: a lui, infatti, spetta precisare tale requisito «d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e sentite le associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative» (con decreto da emanare entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto, art. 5, comma 1, lett. c).

Il che potrebbe essere anche comprensibile se l’ambito di azione fosse nazionale o inter-regionale; ma così non è perché, se è vero che le agenzie di somministrazione “generaliste” e quelle di intermediazione devono avere fra i requisiti «la garanzia che l’attività interessi un ambito distribuito sull’intero territorio nazionale e comunque non inferiore a quattro regioni» (art. 5, comma 2, lett. b e rispettivamente comma 4, lett. b); è pur vero che l’ambito può essere solo regionale, sia per le agenzie di somministrazione specialiste (art. 5, comma 3); sia per quasi tutti i soggetti abilitati ai regimi particolari di autorizzazione (università, comuni, camere di commercio, istituti di scuola secondaria di secondo grado, associazioni sindacali comparativamente più rappresentative firmatarie dei contratti collettivi nazionale di lavoro, associazioni di tutela e assistenza imprenditoriali, enti bilaterali, art. 6, commi 1, 2 e 3). Dunque una regione può trovarsi il suo territorio affollato da un elevato numero di agenzie, senza poter dire la sua, con l’unica consolazione di poter incrementare quel numero, autorizzandone altre, purché non di somministrazione “generalista”, «con esclusivo riferimento al proprio territorio» (art. 6, comma 6). Anche qui, però, è il Ministro che «stabilisce d’intesa con la Conferenza unificata le modalità di costituzione della apposita sezione regionale dell’albo … e delle procedure ad essa connesse (art. 6, comma 7).

Non è tutto, perché l’attività svolta dalle agenzie di somministrazione è alla base di «fondi per la formazione e l’integrazione del reddito», tramite la corresponsione di un contributo pari al 4% della retribuzione corrisposta ai lavoratori a tempo determinato e indeterminato, con finalità distinte per gli uni e per gli altri ma, comunque, riconducibili a ragioni di garanzia del reddito, di qualificazione e riqualificazione, di previdenza (art. 12, commi 1 e 2). Almeno sulla carta è un meccanismo destinato a svolgere un ruolo importante: sia perché i contratti di somministrazione paiono destinati a costituire mezzi privilegiati di accesso al mercato del lavoro; sia perché “producendo” contributi, vengono a creare fondi di risorse rilevanti, in sé e  tenuto conto del “vuoto finanziario” di una riforma concepita e costruita a costo zero. Ma è un meccanismo a circuito chiuso Ministero-parti sociali, senza che le regioni siano in grado di metterci parola: i contributi possono essere aumentati o diminuiti dal Ministro del lavoro (commi 6 e 8); sono rimessi a fondi bilaterali appositamente costituiti dalle parti stipulanti il contratto collettivo nazionale delle imprese di somministrazione di lavoro - come associazioni non riconosciute o riconosciute da parte del Ministero del lavoro (comma 4) - ed autorizzati e controllati dal Ministero del lavoro (comma 5); a loro volta i fondi bilaterali devono muoversi nel quadro predeterminato dal contratto collettivo nazionale delle imprese di somministrazione di lavoro o, in difetto, dal Ministro del lavoro, «sentite le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro maggiormente rappresentative nel predetto ambito» (comma 3).

Qualcosa di più è dato ritrovare nell’art. 13, che consente alle agenzie di somministrazione di svolgere «politiche attive di workfare» («al fine di garantire l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori svantaggiati»), per via di un mix di benefici normativi e di sconti retributivi/contributivi: assunzione in deroga al regime generale e notevole diminuzione del costo lavoro (l’eventuale trattamento di disoccupazione viene conservato fini ad un massimo di 12 mesi con corrispondente decurtazione della retribuzione e contribuzione), (comma 1 lett. a e b). Di più ma non troppo, perché solo la regolamentazione attuativa è rimessa alle regioni, fermo restando che in sua attesa basta «una convenzione tra una o più agenzie autorizzate alla somministrazione di lavoro, anche attraverso le associazioni di rappresentanza e con l’ausilio delle agenzie tecniche strumentali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, e i comuni, le province o le regioni stesse» (comma 6)

A fronte di un doppio canale “pubblico e privato” il legislatore non poteva evitare di porsi il problema del raccordo; cosa che dà l’impressione di fare con gli artt. 7 e 13 dedicati agli «accreditamenti» e alle «misure di incentivazione del raccordo pubblico e privato». Dà solo un’impressione, perché l’art. 7 non restituisce affatto un ruolo alla regione, se non quello di poter mettere nella sua rete di servizi anche gli operatori del “canale privato”, tramite accreditamenti difficili da definire, ma che sostanzialmente risultano solo in doti aggiuntive «di risorse pubbliche» (art. 2, comma 1, lett. f), specie quelle riservate alle regioni stesse, quali in primis la formazione professionale (art. 7, comma 1, lett. e). Anzi, ne approfitta, per predeterminare lo stesso spazio della regione nel varo del regime degli accreditamenti, fissandone procedimento e contenuto: deve sentire le associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative; nonché deve procedere nel rispetto di precisi e puntuali principi e criteri (art. 7, commi 1 e 2).

A sua volta, l’art. 13, seppur intitolato ambiziosamente «misure di incentivazione del raccordo pubblico e privato», ha solo il significato già visto di una ulteriore enfatizzazione delle agenzie di somministrazione, vere e proprie protagoniste par excellence  del “canale privato”; enfatizzazione, questa, che porta a  squilibrare l’intero sistema pubblico e privato a tutto vantaggio del secondo.

b) Se possibile, il tratto centralistico emerge ancor più e meglio nel regolamento della Borsa continua nazionale del lavoro, anche qui preceduto da una clausola di salvaguardia circa la distribuzione delle competenze Stato-regioni, espressa con le parole «nel pieno rispetto dell’art. 120 della Costituzione stessa» (art. 15, comma 1). Nulla da dire circa l’articolazione della borsa in due livelli – nazionale e regionale – (art. 15, comma 4, lett. a e b); ma già il loro “coordinamento”, pur delineato con un linguaggio estremamente prudente e vago, pare presagire che, di diritto e di fatto, si tratti di un “adeguamento” del secondo livello al primo: se è vero che in un periodo si dice genericamente che il coordinamento «deve in ogni caso garantire, nel rispetto degli articoli 4 e 120 della Costituzione, la piena operatività della borsa …» è anche vero che nel periodo immediatamente successivo, si aggiunge che, a questo scopo, il Ministero del lavoro «rende disponibile l’offerta degli strumenti tecnici alle regioni e alle province autonome», quasi fosse principalmente un problema tecnico di traduzione di un input nazionale (art. 15, comma 5). Il che finisce per trovare conferma nel processo di definizione degli standard tecnici e flussi informativi di scambio, che vede ancora una volta il Ministro del lavoro tenere per sé la regia, secondo una formula che riecheggia quella già usata precedentemente a proposito della diffusione dei dati relativi all’incontro domanda-offerta di lavoro: là, si faceva carico al Ministro di disciplinare «le modalità di trattamento dei dati personali», «sentite le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano nonché… il Garante per la protezione dei dati personali», con decreto da adottare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del decreto (art. 8, comma 2); qui gli si domanda di stabilire «gli standard tecnici e i flussi informativi di scambio tra i sistemi, nonché le sedi tecniche finalizzate ad assicurare il raccordo e il coordinamento del sistema a livello nazionale», «di concerto con il Ministro della innovazione e della tecnologia, e d’intesa con le regioni e le province autonome», con decreto da adottare entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto (art. 16, comma 1), «nel rispetto delle competenze definite nell’Accordo Stato–regioni–autonomie locali dell’11 luglio 2002» (art. 16, comma 2).

Fin qui il discorso riesce comprensibile, seppur non sempre giustificabile, trattandosi di impostare un sistema che deve essere necessariamente, non solo unitario, ma anche omogeneo; non altrettanto oltre, perché, poi, in tema di monitoraggio statistico, tende ad invadere ed espropriare lo spazio gestionale della regione, rendendo il corrispondente livello un mero e semplice “snodo” del sistema. Il Ministero del lavoro ribadisce il suo ruolo totalmente egemone nella direzione e conduzione della borsa: oltre a emanare i decreti già previsti dal d.lgs. n. 181/2000 e dal d.lgs. n. 297/2002, procede alla «definizione di tutti i flussi formativi»; ed impartisce le conseguenti direttive agli enti previdenziali, «avvalendosi … delle indicazioni di una Commissione di esperti … da costituire presso lo stesso Ministero ed in cui siano presenti rappresentanti delle regioni e delle province, degli Enti previdenziali, dell’ISTAT, dell’ISFOL e del Ministero dell’economia e delle finanze oltre che del Ministero del lavoro e delle politiche sociali» (art. 17, comma terzo). Tale Commissione, «integrata con rappresentanti delle parti sociali», dovrà definire «una serie di indicatori di monitoraggio, finanziario, fisico e procedurale dei diversi interventi di cui alla…legge»; indicatori che, a loro volta, «previo esame di approvazione della Conferenza unificata, costituiranno linee guida per le attività di monitoraggio e valutazione» del Ministero, delle regioni e delle province (art. 17, comma 4).

Come si vede il monitoraggio statistico finisce per congiungersi e saldarsi con la valutazione politica del lavoro (art. 17, comma 7) in un governo complessivo radicato presso il Ministero del lavoro, incaricato di chiudere il circuito politico, con un Rapporto annuale al Parlamento e alla Conferenza unificata, predisposto «avvalendosi di proprie strutture tecniche e col supporto dell’ISFOL» e contenente «una rendicontazione dettagliata e complessiva delle politiche esistenti, e al loro interno dell’evoluzione dei servizi di cui al…decreto legislativo» (art. 17, comma 6).

   2B. Disciplina dei contratti “formativi”-L’altro terreno elettivo del rapporto Stato-regioni, costituito dai c.d. contratti a causa mista, viene in rilievo nel Titolo VI. Un Titolo che vede sempre il Ministro del lavoro come deus ex machina dell’intero sistema, costruito su un distinguo fra contratto/rapporto di lavoro e processo formativo: per il primo c’è un regolamento legislativo, articolato su un triplice contratto di apprendistato ed un contratto di inserimento, più un tirocinio estivo di orientamento; per il secondo c’è un rinvio all’intervento regionale, peraltro effettuato col solito mix di fissazione di una procedura e di predeterminazione di principi e criteri direttivi e, comunque, con un ovvio favor nei confronti del processo formativo esterno o extra-aziendale.

Il vecchio contratto di apprendistato viene riproposto secondo una triplice variante, non priva di una sua astratta ragionevolezza, articolata su una “resa” formativa graduata e correlata al sistema di istruzione: apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (art. 48); apprendistato professionalizzante (art. 49); apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione (art. 50). Anche se, poi, la moltiplicazione del tipo originario, così come tradotta, dà l’impressione di essere un po’ forzata nell’adozione della formula magica trinitaria, sì da far sospettare una non facile e non limpida prassi applicativa.

Un giudizio definitivo deve, però, attendere, visto l’eccesso di rinvii, di cui il legislatore è così consapevole da mantenere fermo l’attuale regime, fino al completamento di un regime delineato ma non definito. Di rinvii espliciti ce ne sono anche per le regioni, per la «regolamentazione dei profili formativi», e, comunque, con la pre-fissazione di un preciso iter: per l’apprendistato di cui all’art. 48, «d’intesa con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» e nel rispetto dei principi e criteri direttivi indicati nelle successive lettere a-f (comma 4); per l’apprendistato di cui all’art. 49, «d’intesa con le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano regionale» e nel rispetto dei principi e criteri direttivi indicati nelle successive lettere a-e (comma 5); per l’apprendistato di cui all’art. 50, «in accordo con le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro, le università e le altre istituzioni formative» (comma 3). Nei primi due tipi di apprendistato, di cui agli artt. 48 e 49, fra i principi da rispettare c’è quello di un rinvio ai contratti collettivi di lavoro, per la definizione «delle modalità di erogazione, della formazione aziendale nel rispetto degli standard generali fissati dalle regioni» (art. 48, comma 4, lett. c) e, rispettivamente, «delle modalità di erogazione e della articolazione della formazione, esterna e interna alle singole aziende» (art. 49, comma 5, lett. b).

L’alta regia del Ministro del lavoro già evidente nell’art. 48, comma 4, ritorna in procedure che vedono partecipi le stesse regioni: a proposito dei crediti formativi, le cui modalità di riconoscimento sono definite entro dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto dal «Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’istruzione, delle università e della ricerca, e previa intesa con le regioni e le province autonome», con l’aggiunta rassicurante del «rispetto delle competenze delle regioni e province autonome e di quanto stabilito nell’Accordo in Conferenza unificata Stato-regioni–autonomie locali del 18 febbraio 2000…» (art. 51, comma 2); a proposito del repertorio delle professioni, istituito presso il Ministero del lavoro, la cui predisposizione è curata «da un apposito organismo tecnico di cui fanno parte il Ministero dell’istruzione, della università e della ricerca, le associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e i rappresentanti della Conferenza Stato-regioni» (art. 52); a proposito degli attuali incentivi all’occupazione, mantenuti fermi in attesa della riforma, la cui erogazione rimane «soggetta alla effettiva verifica della formazione svolta secondo le modalità definite con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, d’intesa con la Conferenza Stato-regioni» (art. 53, comma 3). Ed a coronamento c’è da ricordare la «Commissione di sorveglianza con compiti di valutazione in itinere della riforma… composta da rappresentanti ed esperti designati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nel cui ambito si individua il Presidente, dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca dalle regioni e province autonome, dalle parti sociali, dall’I.N.P.S. e dall’ISFOL», che il Ministero deve istituire entro novanta giorni dall’entrata in vigore del decreto (art. 17, comma 8).

La conferma di quanto sopra viene dal contratto di inserimento (art. 55) - succedaneo e sostituto del contratto di formazione e lavoro, destinato a venir meno per l’intero settore privato (art. 86, comma 9) - il cui progetto individuale di inserimento, espressivo, com’è, di un processo formativo esclusivamente aziendale, prescinde dall’intervento regionale.

3. Segue: I Titoli II e VI al vaglio della Costituzione e… della Corte costituzionale Il quadro appena delineato stimola una sia pur sommaria valutazione che parte dalla stessa congruità dell’intentio perseguita dal legislatore con la strumentazione adottata. Sullo sfondo c’è il Leit motiv di un rafforzamento della tutela sul mercato del lavoro con un ricorso al sistema pubblico e privato, ricentralizzando il primo con un ruolo servente rispetto al secondo. E’ un approccio che indubbiamente fa tesoro dell’insegnamento di un passato che testimoniava un duplice fallimento, sia di un decentramento regionale “anarchico”, sia, conseguentemente, di un sistema pubblico rimasto residuale e marginale.

Non sorprende più di tanto che, dopo l’iniziale entusiasmo “federalista” del Libro Bianco, correlato al progetto di un accentuato decentramento contrattuale, il legislatore abbia ritenuto di seguire un percorso diverso. Certo, il fatto che il decreto legislativo sia stato concepito e partorito nel “chiuso” del Ministero del lavoro, portato a vivere l’aggiornamento del Titolo V della Costituzione come un pericolo per la sua stessa sopravvivenza, è stato determinante nel farne una sorta di caput mundi a cui tutte le strade portano; ma c’era e c’è un vuoto reale, che il modello dominante di federalismo competitivo ha finito per produrre e perpetuare nel nuovo Titolo V. Lo ha fatto, esorcizzando qualsiasi struttura verticale extra–statuale, autonoma e partecipata, chiamata a farsi carico di un fascio funzionale di materie, gestibili solo a dimensione nazionale, come avrebbe ben potuto essere una agenzia “federale”, ricalcata sull’esperienza tedesca.

Solo che, come visto, il legislatore persegue un progetto più sofisticato di quello di un riaccentramento dell’esistente regime pubblico, che viene lasciato sostanzialmente intoccato, eccezion fatta per la borsa continua nazionale del lavoro, a tutto pro di una apertura, a costo prossimo allo zero, al protagonismo del mercato, controllata e governata dal centro, per via della legge e della decretazione e direzione del Ministero del lavoro. E, così operando, egli si mette al riparo da eventuali ricorsi delle regioni e delle province autonome, assai più e assai meglio di quanto faccia con le rituali affermazioni di rispetto delle competenze regionali.

Peraltro i ricorsi ci sono stati, per ora nei confronti della legge delega n. 30/2003. A quanto mi risulta cinque, di cui uno, 2 maggio 2003, della Provincia autonoma di Trento, e quattro di regioni  a statuto ordinario: 30 aprile 2003 delle Marche, 2 maggio 2003 della Emilia Romagna, 3 maggio 2003 della Toscana, 7 maggio 2003 della Basilicata. Essi investono, come prevedibile, gli artt. 1 e 2, con riguardo ai principi delega relativi alla disciplina dei servizi pubblici e privati per l’impiego e, rispettivamente, ai contratti a contenuto formativo e tirocinio, sì da coinvolgere indirettamente pars magna del decreto legislativo.

Non è certo il caso qui di riprendere la querelle ermeneutica relativa al nuovo rapporto Stato-regioni con riguardo al “diritto del lavoro”, se non per dare atto che anche alla luce della tesi oggi maggioritaria, la legge delega e la decretazione delegata sono passibili di più di una critica in chiave costituzionale. Riconosciuta allo Stato la competenza esclusiva in materia di disciplina del contratto/rapporto di lavoro ricadente nell’«ordinamento civile», di determinazione «dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», di «previdenza sociale» e di «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» (art. 117, comma 2, lett. l, m, o, r), nonché quella di fissare i «principi fondamentali» in materia di «tutela e sicurezza del lavoro» (ex art. 117, comma 3), resta pur sempre difficile conciliare la legislazione in parola, con una lettura non iper-riduttiva della competenza concorrente relativa a tale materia oltre che a quella della «previdenza complementare e integrativa» e residuale in materia di istruzione e formazione professionale (ex art. 117, commi 3 e 4). Senza avventurarci oltre, la cosa che suscita maggior perplessità anche alla luce della giurisprudenza costituzionale addirittura precedente al nuovo Titolo V, è la chiara invasione di campo rispetto alla competenza regionale, sia laddove le si vincola il procedimento legislativo a meccanismi concertativi e il contenuto a rinvii vincolanti ai contratti collettivi; sia dove le si obbliga a rispettare la attribuzione delle funzioni amministrative effettuata nella stagione di decentralizzazione precedente la riscrittura del Titolo V.

Per spingersi più oltre bisogna cominciare a leggere e valutare la prima giurisprudenza costituzionale formatasi circa il nuovo rapporto fra Stato e regioni, che, com’era facilmente prevedibile, tende a “trasformare” il modello di federalismo competitivo in uno cooperativo, estrapolando principi generali da singoli disposti del testo e riadattando argomentazioni collaudate in passato. Il punto di attacco non poteva che essere costituito dal tratto fondante del federalismo competitivo, cioè dal criterio di un riparto di competenze per materie, lo stesso utilizzato ieri, ma reso oggi assai più dirompente dall’essere stato sia “rovesciato” ed “allungato”, con il varo di un’area residuale non più a pro dello Stato ma delle regioni; sia “deprivato” del limite tutto fare dell’interesse nazionale. Estremamente significativa in tal senso è la giustamente citata ed annotata Corte cost., sentenza 25 settembre–1 ottobre 2003, n. 303, che rende, da rigido, a flessibile il criterio di riparto per materie, funzionalizzandolo in ragione di un criterio di solidarietà, espunto dall’art. 118, comma 1 Cost. e reso principio cardine. Non è qui il caso di soffermarci sull’esito “paradossale” di questa sentenza che in base al principio di legalità finisce per far dipendere le competenze legislative da quelle amministrative, con una sorta di parallelismo alla rovescia; e, appunto, in forza del principio di sussidiarietà ascendente, per avocare allo Stato funzioni amministrative regionali. Ma si vuole solo enfatizzare, come d’altronde è stato fatto, che consapevole del rischio di una flessibilizzazione del criterio del riparto per materia rimesso al placet dello Stato, la Corte, nella logica e prospettiva di un modello federalista cooperativo, rilancia il vecchio passe-partout della “leale collaborazione”: lo Stato può legiferare (per il principio di legalità) per funzioni amministrative regionali avocate (per il principio di sussidiarietà ascendente), sempre che «la valutazione dell’interesse pubblico sottostante alla assunzione delle funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità» e che «sia soggetto di accordo stipulato con la regione interessata».

Alla luce di una giurisprudenza come questa, certo rappresenta una sorta di immunizzazione costituzionale del decreto l’aver spesso previsto, come condizione di efficacia dei provvedimenti ministeriali, l’ “intesa” con la controparte regioni-autonomie locali (così come richiamate in testo, «Conferenza unificata Stato-regioni», art. 2, comma 1, lett. i; «Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le regioni e le province autonome», art. 5, comma 1, lett. c; «Conferenza unificata»: artt. 6, comma 7 e 17, comma 5; «Conferenza Stato-regioni», art. 53, comma 3); oppure l’ «intesa» con le regioni e province autonome (16, comma 1; art. 51, comma 2), che a volte degrada a «sentite» (art. 8, comma 2), senza che sia sempre chiaro il perché e il per come di un tale approccio pluralistico, non per via della Conferenza ma delle regioni e province assunte singolarmente. La richiesta di una “intesa” è spesso rinforzata dal richiamo vincolante di precedenti accordi Stato-regioni e Stato-regioni-autonomie locali, come tali oggetto di rinvii formali, che li congelano nel testo del decreto: «Accordo Stato-regioni del 18 febbraio 2000» (art. 2, comma 1, lett. i); «Accordo Stato-regioni-autonomie locali 11 luglio 2002» (art. 16, comma 2) «Accordo in Conferenza unificata Stato-regioni-autonomie locali del 18 febbraio 2000» (art. 51, comma 2). Né, nella panoramica complessiva, manca un’ipotesi di procedura invertita, perché ad essere richiesta come condizione di efficacia di atti delle regioni e delle province autonome è l’ «intesa» con il Ministero del lavoro e dell’istruzione (art. 48, comma 4).

Per chiudere merita un cenno il coinvolgimento regionale per mezzo della partecipazione a gruppi di lavoro, come l’apposito organismo tecnico incaricato di predisporre il repertorio delle professioni, con «rappresentanti della Conferenza Stato-regioni» (art. 52, comma 1); o a Commissioni, quali la Commissione di monitoraggio statistico e valutazione delle politiche del lavoro, con «rappresentanti delle regioni e delle province» (art. 17, comma 3); la Commissione di sorveglianza e valutazione sui contratti di apprendistato, con «rappresentanti ed esperti designati… dalle regioni e province autonome» (art. 17, comma 8).

Tutto questo, come si suol dire, a bocce ferme, perché è già da tempo aperto il cantiere per la riforma della …riforma di cui alla legge costituzionale n. 3/2001, che, stando al progetto varato dal Consiglio dei Ministri nella seduta dell’11 aprile 2003, dovrebbe conservare soltanto una competenza esclusiva per lo Stato ed una altrettanto esclusiva per la regione, con l’eliminazione dell’area coperta dalla concorrenza concorrente e conseguente ridistribuzione delle materie ivi contenute. E alla fine del rimescolo delle carte, la tanto discutibile e discussa «tutela e sicurezza del lavoro» tornerebbe alla casa madre, cioè alla competenza esclusiva dello Stato, riconfermando per tabulas una vecchia legge “scientifica” di qualsiasi modello federalista anche spinto, cioè di un forte riflusso del diritto del lavoro verso il livello centrale e nazionale.

 4. Sistema delle fonti e contrattazione collettiva. Una contrattazione “applicativa”, stretta fra legge/decretazione ministeriale e autonomia privata.  A scorrere il decreto può sorprendere, piacevolmente o spiacevolmente, a seconda del proprio punto di vista,  il profluvio di richiami al “sindacato”, disseminati a piene mani lungo l’intero testo. Un dato di fatto indiscutibile, questo, anche se, in sé per sé, non esaustivo, perché secondo un vecchio detto la “quantità” non è sempre sinonimo di “qualità”, sì da costringere ad una ricognizione sistematica, preliminare ad una valutazione complessiva. Ma, già in prima battuta, è possibile anticipare che il duplice tratto rilevato, centralistico e regolativo, ritorna qui nella scelta, sia degli interlocutori e dei livelli, sia dei ruoli loro assegnati: interlocutori e livelli nazionali; ruoli “integrativi” rispetto al dettagliato regime legislativo e ministeriale.

   4.A “L’alta regia” del Ministro del lavoro Non manca, neppure, qui l’alta regia del Governo, che trova la sua espressione più piena proprio nell’articolo di chiusura, quell’art. 86 dedicato alle norme transitorie e finali. La collocazione e la stessa cronaca della redazione all’ultimo minuto dei commi che qui interessano testimoniano una qual sorta di esorcismo in extremis del sospetto di un intervento anti-sindacale, effettuato, però, all’interno di un forte centralismo ministeriale. Non solo questo, coniugandosi tale esorcismo con qualche concreto motivo pratico, diverso per ogni tipo di coinvolgimento sindacale, in relazione e ragione dello sbocco previsto, contrattuale o legislativo.

Il comma 13 dell’art. 86 prevede una convocazione - a tamburo battente (entro cinque giorni dall’entrata in vigore del decreto) - da parte del Ministro, delle «associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, al fine di verificare la possibilità di affidare a uno o più accordi interconfederali la gestione della messa a regime del presente decreto, anche con riferimento al regime transitorio e alla attuazione dei rinvii contenuti alla contrattazione collettiva» (all’«eventuale accordo interconfederale» di cui a questo comma fanno riferimento gli artt. 40, comma 1 e 55 comma 3). Il dettato è chiaro sia circa lo scopo pratico, quello di coordinare e facilitare tutto il sistema di rinvii attuativi alla contrattazione collettiva, sia circa lo sbocco, costituito com’è da accordi centrali.   

A sua volta, quasi a fare da pendant, il precedente comma 8 prescrive una convocazione - con largo respiro (entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto) – da parte del Ministro per la funzione pubblica, delle «organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per esaminare i profili di armonizzazione… anche ai fini dell’eventuale predisposizione di provvedimenti legislativi in materia». Anche qui il testo è trasparente con riguardo tanto al fine concreto, quello di rimediare al gap politico e tecnico creato dall’aver ristretto l’ambito del decreto al solo settore privato; quanto al finale, quello unico possibile costituito da un superamento legislativo di tale gap.

Infine, chiude il trio dei disposti rilevanti, dell’art. 86, il comma 12, che, restituendo il bastone di comando al Ministro del lavoro, terminale politico del sistema di monitoraggio statistico e di valutazione delle politiche del lavoro di cui all’art. 17, sancisce che lo stesso proceda entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore del decreto «sulla base delle informazioni raccolte ai sensi dell’art. 17, a una verifica con le organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» delle disposizioni varate come sperimentali («le disposizioni di cui agli articoli 13, 14, 34, comma 2, di cui al Titolo III e di cui al Titolo VII, capo II, Titolo VIII»). A prescindere qui dal significato preciso di tale carattere sperimentale, se cioè comporti o no il venir meno automatico delle disposizioni in parola, in difetto di conferma, è evidente l’obiettivo di contare sul supporto tecnico-politico del sindacato circa la resa degli istituti coinvolti, così come il destinatario ultimo, anche qui costituito dal Parlamento.

Non è tutto , però, perché, facendo un passo indietro è dato rinvenire gli artt. 78, comma 4, e 84, comma 4, in virtù del quale il Ministro del lavoro deve adottare con un decreti, da assumere entro sei mesi dall’entrata in vigore del testo legislativo, «codici di buone pratiche per l’individuazione delle clausole indisponibili in sede di certificazione dei rapporti di lavoro» (cioè, quanto pare, quelli ricordati all’art. 75, comma 1: lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale, a progetti, contratti in associazione di partecipazione) e, rispettivamente,  «codici di buone pratiche e indici presuntivi in materia di interposizione illecita e appalto genuino». Codici ed indici, questi, che, per entrambi gli articoli «recepiscono, ove esistono, le indicazioni contenute negli accordi interconfederali stipulati dalle associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale »; ma così conservano al Ministro poteri discrezionali, sia perché possono non esserci , sia  perché anche quando ci sono difficilmente lo possono vincolare fino al punto di recepirli in senso tecnico, cioè in toto.

Sempre al Ministro del lavoro fanno capo la Commissione di esperti per il monitoraggio statistico e di valutazione delle politiche del lavoro (art. 17, comma 3, come integrata dal comma 4) e la Commissione di sorveglianza in materia di apprendistato (art. 17, comma 8), con a loro componenti anche le «parti sociali»; così come l’apposito organismo tecnico per l’apprestamento del repertorio delle professioni, con a loro membri pure «le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (art. 52, comma 1).

Né manca il modello di procedimento che declassa il coinvolgimento alla consultazione, a cominciare dalla variante “ministeriale” riguardante la definizione del «libretto formativo del cittadino», dove il concerto fra Ministro del lavoro e della istruzione prevede anche un «sentite le parti sociali» (art. 2, comma 1, lett. i). Modello, questo, che, come già visto, trova particolare fortuna nella variante regionale, sia quella “forte” – in tema di apprendistato - dell’ «intesa» (art. 49, comma 5) o dell’ «accordo» (art. 50, comma 3), con a destinatarie «le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano regionale» e, rispettivamente, «le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro»; sia quella “media” – in tema di fondi per la formazione e l’integrazione del reddito - della «previa verifica», con a destinatarie «le parti sociali» (art. 12, comma 6); sia quella “debole” – in tema di accreditamenti, di fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, di apprendistato - del «sentite» (artt. 7, comma 1; art. 12, comma 8; art. 48, comma 4), con a destinatarie «le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative», peraltro, nel primo caso, senza esplicito riferimento  dimensionale, mentre nel secondo e nel terzo  con riferimento «al piano nazionale».

   4.B La tipologia dei “rinvii”.  Naturalmente il capitolo più ricco è quello costituito dal “rinvio” alla  contrattazione collettiva, che si svolge a puntate nei vari titoli e capi dedicati ai “vecchi” contratti rivisti (di somministrazione, di part-time, di apprendistato nel suo triplice modulo) e dei più o meno “nuovi” introdotti dal decreto in esame (di lavoro intermittente, di lavoro ripartito, di lavoro a progetto, di inserimento). Volendo dar vita ad una classificazione - che sconta sia la discutibilità delle categorie prescelte, sia la approssimazione delle espressioni utilizzate nel testo - si può procedere secondo la seguente partizione, in base ai poteri conferiti dalla legge alla contrattazione collettiva: di “conformazione” di fonte secondaria, di “autorizzazione”; di concessione della “facoltà di deroga” alla legge; di concessione della “facoltà di integrazione” della legge; di “applicazione suppletiva” in carenza della contrattazione collettiva; di “rinvio classico”, cioè nel senso di investitura della contrattazione collettiva come fonte del trattamento economico-normativo, cui si intenderebbe assicurare una efficacia ultra vires.

a) Appropriata o meno che sia la parola prescelta, essa intende ricomprendere i casi in cui i contratti collettivi devono essere recepiti da fonti  di normazione secondaria o assunti come referenti dai giudici. Nel primo senso, valgono i già citati artt. 78, comma 4, e 84, comma 2, in cui i decreti del Ministro «recepiscono, ove esistano, le indicazioni contenute negli accordi» interconfederali (nel primo) o anche di categoria (nel secondo).  Nel secondo, l’art. 46, comma 1 lett. r), dove i giudici, chiamati a «determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale», in sostituzione delle parti, devono farlo «con riferimento alle previsioni dei contratti collettivi … , o, in mancanza con valutazione equitativi» .

In entrambi i casi, fermo restando la possibilità di procedere in difetto della contrattazione collettiva, molto dipende da come vengono intesi i termini «recepiscono» e  «con riferimento» , perché, ovviamente, dai loro significati, più o meno rigidi, dipende la pesantezza dei vincoli di conformazione a capo del Ministro e, rispettivamente, dei giudici.

b) Rispetto ai casi di  “autorizzazione”, pare possibile operare un distinguo a seconda che il Ministro del lavoro sia fornito o meno di un potere “sostitutivo”, da esercitare, entro un tempo prefissato, in caso di stallo negoziale; ciò per impedire che lo stallo si trasformi in un blocco del processo attuativo.

Il primo caso è dato dalla previsione - nel «contratto collettivo nazionale delle imprese di somministrazione di lavoro» - del «quadro di politiche» in cui collocare «gli interventi e le misure» dei fondi per la formazione e l’integrazione del reddito; difettando tale previsione, provvede con decreto il Ministro del lavoro «sentite le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro maggiormente rappresentative nel predetto ambito», cioè del contratto collettivo medesimo (art. 12, comma 3). Il secondo è costituito dalla individuazione - nei «contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale» - delle «esigenze» o dei «casi» (qui c’è un problema d coordinamento tra l’art. 34, comma 1 e l’art. 40, comma 1), nonché degli «ulteriori periodi predeterminati» (art. 37, comma 2) di ricorso al lavoro intermittente; mancando tale individuazione, interviene con apposito decreto il Ministro del lavoro, per porre un regime provvisorio secondo un procedimento non chiaro né nei modi né nei tempi (qui il problema di coordinamento appena accennato, diviene ancora più complesso e difficile), che ha come interlocutrici le «associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale». Il terzo è rappresentato dalla determinazione delle «modalità di definizione dei piani individuali di inserimento … e di definizione e sperimentazione di orientamenti, linee-guida e codici di comportamento» da parte dei «contratti collettivi nazionali o territoriali, stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale», nonché dai «contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali», essendo assente tale individuazione il Ministro del lavoro provvede a convocare le «organizzazioni sindacali interessate» (entro cinque mesi dall’entrata in vigore del decreto) e, in difetto di accordo (entro i quattro mesi successivi) introduce per decreto un regime provvisorio (art. 55, commi 2 e 3).

Vi sono altri casi non contemplanti un potere sostitutivo del Ministro del lavoro. Nel contratto di somministrazione a tempo indeterminato, le fattispecie ammesse sono sì enumerate tassativamente, ma fra queste c’è anche l’ultima, residuale ma aperta, riguardante «tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative» (c’è da supporre del somministratore) (art. 20, comma 3, lett. i). Nel contratto di somministrazione a tempo determinato – dove, invece, le fattispecie ammesse sono ricomprese in una tipica clausola generale (art. 20, comma 4: «a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore») - i «casi» e la «durata» della proroga del termine inizialmente posto al contratto sono fissati dal «contratto collettivo applicato dal somministratore» (art. 22, comma 2).

Nel part-time, «i contratti collettivi nazionali» («stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale») possono prevedere «per specifiche figure o livelli professionali» le «modalità particolari di attuazione delle discipline rimesse alla contrattazione collettiva ai sensi del presente decreto» (art. 46, comma 2 lett. b ultimo capoverso); «i contratti collettivi nazionali o territoriali, stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ed i contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali…ovvero dalle rappresentanze sindacali unitarie» stabiliscono – oltre al «numero massimo delle ore di lavoro supplementare effettuabili» -, le «causali in relazione alle quali si consente di richiedere ad un lavoratore a tempo parziale lo svolgimento di lavoro supplementare» (art. 46, comma 1 lett. b ed e), nonché le condizioni e modalità delle clausole flessibili ed elastiche e la variabilità temporale massima di queste ultime (art. 46, comma 1, lett. j), (le “vecchie” clausole elastiche diventate le “nuove” clausole flessibili contemplate dai «contratti collettivi» dovranno, tra l’altro, essere assunte a referente dal giudice allorché sussista una qualche omissione del contratto scritto circa «la sola collocazione temporale dell’orario», art. 46 comma 1 lett. r).

Possono essere considerati al tempo stesso autorizzatorie e derogatorie, tanto da meritare di essere poste tra la fine di questo paragrafo e l’inizio del successivo, le convenzioni, fra le associazioni di rappresentanza delle cooperative e «le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale» finalizzate all’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati, tramite incentivi normativi ed economici, fra cui l’operare in deroga al regime generale della somministrazione; (art. 14, comma 1); convenzioni,  dove, fra l’altro, «la determinazione del coefficiente di calcolo del valore unitario delle commesse» deve avvenire «secondo criteri di congruità con i costi del lavoro derivati dai contratti collettivi di categoria applicati dalle cooperative sociali» (art. 14, comma 1 lett. d).

c) Subito dopo possono essere menzionati i casi in “deroga alla legge”. Non mancano un paio di ipotesi di esplicita ammissione di una deroga in melius, per quanto pleonastica possa apparire: una generale, contemplata nel lavoro a progetto, con la disposizione che la disciplina legislativa non pregiudica «l’applicazione di clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più favorevoli» (art. 61, comma 1); una particolare, prevista nel lavoro intermittente, con la norma per cui la regolamentazione ex lege del dovere di informazione del datore di lavoro non limita le «previsioni più favorevoli dei contratti collettivi» (art. 35, comma 3).

Per, poi, proseguire con altre a carattere particolare, che secondo un giudizio tradizionale possono essere definite in peius: il divieto imposto «ai soggetti autorizzati o accreditati … di percepire … compensi dal lavoratore» può essere superato dai «contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori di lavoro e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale o territoriale … per specifiche categorie di lavoratori altamente professionalizzati o per specifici servizi offerti» (art. 11, commi 1 e 2); il divieto di concludere un contratto di somministrazione, con riguardo ad unità produttive interessate da licenziamenti collettivi attuati nei sei mesi precedenti o da perduranti sospensioni/riduzioni di orario di lavoro accompagnate da cassa integrazione (sempre e se in quanto siano coinvolti lavoratori adibiti alle stesse mansioni), può essere vinto da «diverse disposizioni degli accordi sindacali» (art. 20, comma 5 lett. b); il ribadito e riformulato principio di parità di trattamento per i lavoratori somministrati può essere messo in discussione dai «contratti collettivi nazionali» stipulati ai sensi dell’art. 1, comma 3, l. n. 196/1997 (art. 23, comma 1); la nullità della clausola «diretta a limitare … la facoltà dell’utilizzatore di assumere il lavoratore al termine del contratto di somministrazione» può essere evitata se «sia corrisposta un’adeguata indennità, secondo quanto stabilito dal contratto collettivo applicabile al somministratore» (art. 23, commi 8 e 9); «la facoltà di determinare discrezionalmente e in qualsiasi momento sostituzioni …, nonché di modificare consensualmente la collocazione temporale dell’orario di lavoro» nel caso del lavoro ripartito, può essere regolata in base «a diverse intese tra le parti contraenti o previsioni dei contratti o accordi collettivi» (art. 41, comma 3).

All’elenco dei casi di deroga ne possono essere aggiunti due, apparentemente neutri: con riguardo al part-time, laddove si dice che per  «tempo pieno» deve intendersi «l’orario normale di lavoro di cui all’art. 3, comma 1, del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 o l’eventuale minor orario di lavoro fissato dai contratti collettivi applicati» (art. 46, comma 1, lett. a); e con rispetto alle «collaborazioni coordinate e continuative» stipulate ai sensi della disciplina previgente e non riconducibili «ad un progetto o a una fase di esso» il cui termine massimo di efficacia di un anno dalla data di entrata in vigore del decreto può essere prorogato con «accordi sindacali» stipulati in sede aziendale con le istanze aziendali dei sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale (art. 86, comma 1).

d) Possono poi seguire i casi in cui la contrattazione collettiva svolge un ruolo di “integrazione” della legge, a cominciare dalla previsione comune al contratto di somministrazione e al lavoro intermittente, per cui nell’«indicare» gli elementi da includere ex lege nei testi scritti «le parti devono recepire le indicazioni contenute nei contratti collettivi» (art. 21, comma 2 e, rispettivamente, art. 35, comma 2). Sempre con riguardo al contratto di somministrazione – ma solo a tempo indeterminato - e al lavoro intermittente, la misura della indennità di disponibilità prevista per entrambi è stabilita «dal contratto collettivo applicabile al somministratore» e, rispettivamente, «dai contratti collettivi», sempre, comunque, in ammontare non inferiore a quella «prevista, ovvero aggiornata periodicamente, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali» (art. 22, comma 3, ed art. 36, comma 1): qui il potere del Ministro si esprime come determinativo del minimo, ma in sé e per sé può anche riuscire in concreto “sostitutivo”. Inoltre per il contratto di somministrazione - a tempo determinato o indeterminato -, è previsto che «modalità e criteri» per la determinazione della retribuzione di risultato o di redditività sia rimessa ai «contratti collettivi applicati dall’utilizzatore» (art. 23, comma 4); e, per quello determinato, è stabilito che «la individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato» sia «affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi in conformità alla disciplina di cui all’articolo 10 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368» (art. 20, comma 4). Infine, per il personale di uno stesso somministratore operante presso più utilizzatori, lo «specifico diritto di riunione» riconosciuto dal diritto vigente è esercitato «con le modalità specifiche determinate dalla contrattazione collettiva» (art. 24, comma 3); mentre per il lavoratore intermittente, il «rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata» del datore di lavoro può comportare anche «un congruo risarcimento del danno nella misura fissata dai contratti collettivi» (art. 36, comma 6).

Nutrito è l’elenco dei rinvii di questo tipo nel part-time: «i contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali… ovvero dalle rappresentanze sindacali unitarie» possono: «determinare condizioni e modalità della prestazione lavorativa» (art. 46, comma 1, lett. b); stabilire il «numero massimo delle ore di lavoro supplementare effettuabili» (art. 46, comma 1, lett. e); fissare la misura o le forme del «diritto a specifiche compensazioni» in caso di «esercizio da parte del datore di lavoro del potere di variare in aumento la durata della prestazione lavorativa, nonché di modificare la collocazione temporale della stessa» (art. 46, comma 1, lett. k); «provvedere ad individuare criteri applicativi» con riguardo all’obbligo del datore di lavoro di dare «tempestiva informazione» e di «prendere in considerazione le eventuali domande di trasformazione a tempo parziale del rapporto dei dipendenti a tempo pieno» «in caso di assunzione di personale a tempo parziale» (art. 46, comma 1, lett. o). Un ulteriore caso è riscontrabile nell’apprendistato professionalizzante, laddove è detto che «i contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o regionale stabiliscono, in ragione del tipo di qualificazione da conseguire, la durata del contratto di apprendistato professionalizzante che, in ogni caso, non può comunque essere inferiore a due anni  e superiore a sei» (art. 49, comma 3).

Infine, va ricordato che «in luogo del ricorso all’autorità giudiziaria, le controversie di cui al presente comma ed al comma 1 possono essere risolte mediante le procedure di conciliazione ed eventualmente di arbitrato previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro di cui all’art. 1, comma 3» (art. 46, comma 1, lett. r).

e) Vengono, ora i contratti/clausole rispetto a cui è la legge a svolgere una funzione “suppletiva”, come esplicitamente ed emblematicamente nella regolamentazione del lavoro ripartito, dove la «normativa generale del lavoro subordinato in quanto compatibile con la particolare natura del rapporto di lavoro ripartito» scatta solo in carenza di una diversa regolazione della contrattazione collettiva (peraltro vincolata al rispetto della normativa “speciale” di cui al decreto), (art. 43, comma 1 e 2).

In generale, le ipotesi in questione sono introdotte dalle espressioni «fatte salve» o «salva diversa previsione»: nel contratto di somministrazione «restano in ogni caso salve le clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge 24 giugno 1997, n. 196», rispetto al principio di “pari trattamento” precedentemente affermato (art. 23, comma 1); nel lavoro ripartito sono «fatte salve diverse… previsioni dei contratti o accordi collettivi» rispetto alla facoltà riconosciuta ex lege ai lavoratori «di determinare discrezionalmente e in qualsiasi momento sostituzioni tra di loro, nonché di modificare consensualmente la collocazione temporale dell’orario di lavoro» (art. 41, comma 3); nell’apprendistato e nel contratto di inserimento sono «fatte salve specifiche previsioni di… contratto collettivo» riguardo all’esclusione legale «dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti» (art. 53, comma 2, e, rispettivamente art. 59, comma 2); nel tirocinio estivo di orientamento è solo «salva diversa previsione dei contratti collettivi» che resta esclusa l’applicazione di «limiti percentuali massimi per l’impiego di adolescenti o giovani» (art. 60, comma 4).

f) Siamo così arrivati ai casi in cui la legge si limita a rinviare alla contrattazione collettiva, senza predisporre alcuna disciplina derogabile o applicabile in via suppletiva, ma puntando a fornire alla disciplina collettiva un efficacia ultra vires. L’elenco può essere aperto con la classica imposizione di rinvii vincolanti, cioè tali da obbligare all’osservanza della stessa contrattazione collettiva. Nella lista dei requisiti giuridici e finanziari previsti per le agenzie di somministrazione, “generali” e “speciali”, è compreso «il rispetto degli obblighi previsti dal contratto collettivo nazionale delle imprese di somministrazione di lavoro applicabile» (art. 5, comma 2, lett. d, e rispettivamente, comma 3, lett. c); e, nell’elencazione dei principi e criteri direttivi che le regioni devono rispettare nella regolamentazione dei profili formativi per l’apprendistato, è incluso il «rinvio ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative per la determinazione… delle modalità di erogazione della formazione aziendale» (art. 48, comma 4, lett. c, con riguardo all’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione) e, rispettivamente delle modalità «di erogazione e della articolazione della formazione, esterna e interna alle singole aziende» (art. 49, comma 5, lett. b, con rispetto all’apprendistato professionalizzante).

Può essere, altresì richiamato il disposto per cui «in caso di rapporti di associazione in partecipazione resi senza una effettiva partecipazione e adeguate erogazioni a chi lavora, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato» (art. 86, comma 2).

   4.C Il favor per l’autonomia individuale.  Rimane un aspetto, emerso nel dibattito sul testo legislativo, circa un favor per l’autonomia individuale. Certo è percepibile un certo gusto nel ricorrere all’autonomia individuale, - nel lavoro ripartito, nel part-time, nel lavoro a progetto - che, volendo anche qui procedere ad una classificazione, può essere reso e raggruppato secondo una triplice partizione.

a) Vi sono i casi in cui la relazione tra legge e autonomia individuale è indiretta, con una mediazione collettiva. Ne costituisce una esemplificazione la chiamata in causa contemporanea e contestuale del contratto individuale e collettivo, come quando, rispetto al lavoro ripartito vengono «fatte salve diverse intese tra le parti contraenti o previsioni dei contratti o accordi collettivi» nell’art. 41, comma 3, già considerato precedentemente: qui, sembra evidente non esserci alcuna pari-ordinazione, nonostante l’apparenza, sicché l’espressione utilizzata si risolve non in una sottrazione dell’autonomia individuale alla contrattazione collettiva ove esistente e applicabile, ma in una legittimazione della stessa in carenza di una disciplina collettiva. Se così è, l’ipotesi non è diversa da quelle previste nel part-time, per cui «ove non prevista e regolamentata dal contratto collettivo», «l’effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare richiede il consenso del lavoratore interessato» (art. 46, comma 1 lett. f); e «in assenza di contratti collettivi datore di lavoro e prestatore di lavoro possono concordare direttamente l’adozione di clausole elastiche o flessibili» (art. 46, comma 1 lett. s).

Sembra rappresentare, invece, una ipotesi di deroga in peius quella che permette il superamento consensuale delle ore di lavoro supplementare consentite dai contratti collettivi che di tale superamento dovrebbero definirne le conseguenze (in termini di maggiorazione retributiva), (art. 46, comma 1, lett. e).

b) Seguono, poi, i casi in cui la relazione tra legge e autonomia individuale è diretta, senza alcuna mediazione collettiva. Relazione, questa, che può essere in funzione di una “deroga” in melius – che non richiedeva di essere espressa – come, nel lavoro a progetto, l’aver fatta «salva (una) più favorevole disposizione del contratto individuale» rispetto alla previsione per cui «in caso di gravidanza, la durata del rapporto è prorogata per un periodo di centottanta giorni» (art. 66, comma 3) e, come, nel part-time, l’aver contemplato che «il contratto individuale può prevedere, in caso di assunzione di personale a tempo pieno, un diritto di precedenza in favore dei lavoratori assunti a tempo parziale» (art. 46, comma 1 lett. o); ovvero di una “deroga” in peius unilaterale, come, nella somministrazione di lavoro, l’aver permesso alle agenzie autorizzate alla somministrazione l’«operare in deroga al regime generale della somministrazione di lavoro» (art. 13, comma 1, lett. a) e la disapplicazione del principio di “pari trattamento” (art. 23, comma 2), quando siano in questione lavoratori svantaggiati.

Assai più spesso è tale per cui la legge è suppletiva rispetto all’autonomia individuale. Nel lavoro ripartito è «fatta salva una diversa intesa tra le parti», rispetto al disposto legale per cui «ogni lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa» (art. 41, comma 2); è solo «salvo diversa intesa tra le parti», che «le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori co-obbligati comportano l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale» (art. 41, comma 5) e «l’impedimento di entrambi i lavoratori co-obbligati è disciplinato ai sensi dell’art. 1256 del codice civile» (art. 41, comma 5). A sua volta, infine, nel lavoro a progetto, «salvo diverso accordo tra le parti il collaboratore a progetto può svolgere la sua attività a favore di più committenti» (art. 64, comma 1); «salva diversa previsione del contratto individuale, in caso di malattia e infortunio la sospensione del rapporto non comporta una proroga della durata del contratto che si estingue alla scadenza» (art. 66, comma 2)

Non manca neppure un caso, sempre nel lavoro a progetto, in cui la relazione fra legge e autonomia individuale riserva alla seconda una portata integrativa, come nella previsione per cui «le parti possono recedere prima della scadenza del termine per giusta causa ovvero secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto di lavoro individuale» (art. 67, comma 2).

   4.D Diritti sindacali e garanzie collettive. Non manca un capitolo relativamente modesto dedicato ai «diritti sindacali e garanzie collettive», come si esprime la rubrica dell’art. 24, scritto in tema di somministrazione di lavoro e di appalto. Lo smilzo regolamento legislativo, si apre con l’affermazione per cui «ai lavoratori delle società o imprese di somministrazione e degli appaltatori si applicano i diritti sindacali previsti dalla legge 20 maggio 1970, n. 300» (art. 24, comma 1); per, poi, prevedere un adeguamento con riguardo alla sola somministrazione, caratterizzata, com’è, da una scissione tra titolarità del rapporto a capo del somministratore e disponibilità della prestazione in testa all’utilizzatore. Con riguardo al primo (il somministratore), i dipendenti di uno stesso somministratore, che operano presso diversi utilizzatori vantano «uno specifico diritto di riunione secondo la normativa vigente e con le modalità specifiche determinate dalla contrattazione collettiva» (art. 24, comma 3); con rispetto al secondo (l’utilizzatore), i prestatori di lavoro utilizzati hanno diritto di esercitare presso di lui «per tutta la durata della somministrazione, i diritti di libertà e di attività sindacale nonché a partecipare alle assemblee del personale dipendente» dallo stesso (art. 24, comma 2). Esiste, poi, sempre a capo dell’utilizzatore, l’obbligo di comunicare «alla rappresentanza sindacale unitaria, ovvero alle rappresentanze aziendali e, in mancanza, alle associazioni territoriali di categoria aderenti alle confederazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale», sia, «prima della stipula del contratto di somministrazione», «il numero e i motivi» del ricorso alla medesima; sia, «ogni dodici mesi… il numero e i motivi… durata» dei contratti conclusi, nonché «il numero e la qualifica dei lavoratori interessati» (art. 24, comma 4).

Spulciando il testo si trovano poche altre disposizioni: in tema di lavoro intermittente, dove «fatte salve previsioni più favorevoli dei contratti collettivi, il datore di lavoro è altresì tenuto a informare con cadenza annuale le rappresentanze sindacali aziendali, ove esistenti, sull’andamento del ricorso al contratto di lavoro intermittente» (art. 35, comma 3); nel lavoro ripartito, dove «ciascuno dei lavoratori co-obbligati ha diritto di partecipare alle riunioni assembleari di cui all’articolo 20 legge 20 maggio 1970, n. 300, entro il previsto limite complessivo di dieci ore annue» (art. 44, comma 3).

5. Dalla “concertazione” al dialogo sociale. Non resta che passare da una ricognizione-classificazione ad una valutazione della casistica relativa alla chiamata in causa del sindacato, conducendola per grandi linee.

La prima domanda da porsi è se sia rintracciabile nel testo legislativo quel passaggio dalla “concertazione” al “dialogo sociale” teorizzato dal Libro Bianco. Nel testo legislativo, sia chiaro, perché non è affatto avvertibile nel vivo del confronto politico-sindacale dato che, all’indomani stesso del Libro Bianco, quel patto “costituzionale” costituito dall’accordo 23 luglio 1993 è stato ribadito, nonché praticato nel Patto per l’Italia del 5 luglio 2002; e, comunque, bon gré mal gré, il processo concertativo è continuato, ieri, col tavolo per le pensioni e continuerà, domani, con l’allargamento al welfare.

A prima vista, rispetto al testo, viene meno il carattere differenziale più evidente tra concertazione e dialogo sociale relativo all’ambito e rilievo del tema affrontato, quale costituito dell’essere oggetto della prima, un discorso tendenzialmente generale ed “aperto” (sulla delineazione dell’intervento) e comunque dotato di un grande impatto economico-sociale, e, rispettivamente, del secondo, uno settoriale e “chiuso” (sulla traduzione dell’intervento già pre-delineato), e, in ogni modo, dotato di un rilievo prevalentemente attuativo. Viene meno, perché qui il coinvolgimento sindacale è chiaramente previsto e finalizzato ad un migliore funzionamento del raccordo fra norma e realtà regolata, così da sembrare assimilabile assai più che alla concertazione a qualcosa di diverso che, se si vuole, si può etichettare come dialogo sociale.

Lo si può fare visto che non esiste alcun brevetto al riguardo, ma senza voler suggerire una precisa rispondenza con il corrispondente istituto comunitario, come invece si è fatto nel Libro Bianco, dove il costante richiamo a testi CE e a  esperienze di altri Paesi serve a creare una legittimazione politica a tutto campo.

   5.A. Un modello in negativo: “esclusione” delle Confederazioni, “parificazione” delle parti, “prevenzione” di eventuali blocchi negoziali.  Concentrandosi su quel che ci fornisce la cucina nostrana, c’è da dire che il dialogo sociale deducibile dal testo appare segnato da una “esclusione” delle confederazioni, da una “parificazione” piena delle parti contrapposte, da una “prevenzione” rispetto a eventuali blocchi negoziali.

a) Non vi è dubbio che l’ “esclusione” delle confederazioni sia risalente, visto  il venir meno del ruolo prioritario loro assegnato nella legislazione, a partire dall’art. 19, comma 1, lett. b, Stat. lav., cioè quello di far scaturire dalla loro maggior rappresentatività, una rappresentatività “derivata” delle associazioni aderenti. Dopo il referendum abrogativo del giugno 1995, la formula non scompare del tutto tanto che la ritroviamo identica nei testi legislativi n. 196/1997 (art. 5, comma 3 nel suo dettato originario, art. 7, comma 4), n. 368/2001 (art. 10, comma 3) e aggiornata (tramite la sostituzione di «maggiormente» con «comparativamente più») nel d.lgs. n. 532/1999 (art. 8, comma 1) ed addirittura nel nostro decreto legislativo (art. 24, comma 4); non scompare, ma si rarefà fin quasi all’estinzione, cedendo ad un’altra comportante l’attribuzione “originaria” diretta della rappresentatività alle associazioni sindacali .

L’esclusione delle confederazioni, non è solo quella indiretta e mediata derivante dalla sostituzione di una formula di rappresentatività (“derivata”) con un’altra (“originaria”); ma anche quella diretta ed immediata costituita dal non essere chiamate nominatim in causa anche laddove sono destinate, di fatto, al ruolo di protagoniste. Nel decreto in commento non se ne fa parola neppure rispetto a sedi in cui la partecipazione delle confederazioni sarebbe in re ipsa, preferendo espressioni come «parti sociali» (17, commi 4 e 8) , «organizzazioni» (art 86, commi 8 e 12 ) «associazioni» (artt. 78, comma 4, 84, comma 2, 86, comma 13) che certo, asettiche e neutre come sono, comprendono anche le confederazioni (vedi invece per un richiamo diretto delle confederazioni l’art. 5, comma 3 della l. n. 196/1997). E, si noti, che in tutti i casi, il tavolo è tipicamente “confederale”, avendo a sbocco nell’art. 17, commi 4 e 8, la partecipazione a commissioni di portata tipicamente intercategoriale; negli artt. 78, comma 4, e 84, comma 2, «accordi interconfederali» e, rispettivamente, «accordi interconfederali o di categoria» (qui la accoppiata è di per sè sola significativa) destinati ad essere recepiti, se ed in quanto esistenti, in decreti del Ministro del lavoro»; nell’art. 86,  comma 13, …«uno o più accordi interconfederali», qui con successivi ed espliciti richiami negli artt. 40, comma 1 e 55, comma 3. (ad «accordi interconfederali» si accenna anche all’art. 84, comma 2); e, nell’art. 86,  commi 8  12, un provvedimento legislativo.

b) Anche la “parificazione” delle parti è risalente, perché una legislazione che si affida in misura maggiore o minore, non solo ad una partecipazione “pubblica”, ma anche ad una contrattazione collettiva - autorizzatoria, derogatoria, integrativa, suppletiva, estensiva del trattamento economico normativo –, non può che porre sullo stesso piano entrambe le parti stipulanti. Nel testo, però, c’è uno spirito e un tono nuovo, perché in luogo delle espressioni utilizzate precedentemente, quali «sindacati» (v. l’art. 1, commi 2 lett. a, 4, lett. a, 8, l. n. 196/1997; art. 1, comma 3, art. 7, comma 1, d.lgs. n. 61/2000; art. 7, comma 2, art. 9, comma 1, art. 10, commi 7 e 9 d.lgs. n. 368/2001) od «organizzazioni sindacali» (art. 1, comma 3, art. 5, comma 1 nel suo dettato corretto, come risultante dall’art. 64, comma 1, l. 23 dicembre 1999, n. 488, art. 11, commi 4 e 6, art. 13, commi 5 e 7 – prima della sua abrogazione ad opera  dell’art. 11,  d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, art. 18, comma 1, lett. b, art. 23, comma 1, lett. e, n. 196/1997; art. 4, comma 2 d.lgs. n. 532/1999; art. 12, comma 1, d.lgs. 61/2000, artt. 1, comma 2, lett. k, d.lgs. n. 66/2003) od eccezionalmente «associazioni sindacali» (art. 18, comma 1, lett. a l. n. 196/1997), attribuite, al tempo stesso, ad entrambe le parti, (ma per una distinzione di espressioni fra le parti vedi art. 9, comma 5, art. 13, comma 3, art. 17, commi 1 e 2 d.lgs. n. 66/2003) è privilegiata quella di «associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro» (art. 2, comma 1, lett. h, art. 5, comma 1, lett. c, art. 6, comma 3, art. 7, comma 1, art. 11, comma 2, art. 12, comma 1, art. 14, comma 1, art. 20, comma 3, lett. i, art. 34, comma 1, art. 36, comma 1, art. 37, comma 2, art. 46, comma 1, lett. b, art. 48, comma 4 capoverso e lett. c, art. 49, commi 3 e 5, capoverso e lett. b, art. 50, comma 3, art. 52, comma 1, art. 55, comma 2, art. 58, comma 1, art. 78, comma 4, art. 84, comma 2, art. 86, commi 12 e 13 d.lgs. n. 276/2003), seppur non in maniera esclusiva (si parla di «sindacati» negli artt. 20, comma 4, e 86, comma 1; di «organizzazioni sindacali» negli artt. 40, comma 1, 55, comma 3,  art. 83, comma 2, 86, commi 8, 10 e 12 d.lgs. n. 276/2003; di «associazioni sindacali» nell’art. 14, comma 1 d.lgs. n. 276/2003).

La “conversione” della parola «sindacati» od «organizzazioni sindacali» in quella secca di «associazioni» ha un suo significato. A ben guardare, quest’ultima espressione risulta di per sé meglio adatta ad esprimere, al tempo stesso, il rilievo meramente privatistico e il livello tipico del suo intervento quale previsto dal decreto, cioè nazionale o territoriale; e, a fronte delle altre precedentemente usate, quali «sindacati» o «organizzazioni sindacali»  storicamente ritagliate a misura della parte lavoratrice e forzate su quella datrice, nonché connotate in chiave rivendicativo-conflittuale – suona, invece, paritaria e neutra.

c) La cosa più significativa riguarda la “prevenzione” a eventuali blocchi negoziali. Qui il punto di partenza è costituto dal ricorso ad un criterio di legittimazione degli interlocutori, dato dal loro essere «comparativamente più rappresentative». Ricorso, questo, di per sé non criticabile, avendo dalla sua una precisa “politica” consolidata dalla “storia”. La “politica”, perché, una volta deciso di abbandonare la rappresentatività “derivata”, a pro di quella “originaria” (ma vedi ancora nel senso di una rappresentatività derivata gli artt. 5, comma 3, nel suo dettato originario e 7, comma 4 legge n. 196/1997; art. 10, comma 3 d.lgs. n. 368/2001, nonché, addirittura, l’art. 24, comma 4 del d.lgs. n. 276/2003) la scelta di parlare non di «maggiormente» ma di «comparativamente più», ha voluto avere una valenza selettiva: la prima, si prestava ad essere letta nel senso di una “qualità assoluta” (oggetto di un giudizio in sé per sé) come tale tendenzialmente “aperta”; la seconda, si poteva interpretare solo nel senso di una “qualità relativa” (oggetto di un giudizio comparato) come tale potenzialmente “chiusa”. La “storia”, perché una volta introdotta dalla l. 28 dicembre 1995, n. 549 (art. 2, comma 25), e ripresa dal “pacchetto Treu” (qui l’espressione «comparativamente più» è ancora minoritaria (art. 1, commi 2, lett. a, 3, 4 lettera a, 8 art. 23, comma 1, lett. e) a fronte dell’altra, “maggiormente” (art. 5, comma 2 del testo originario, art. 11, commi 4, 5, 6, art. 13, commi 5 e 7 – prima che quest’ultimo comma fosse abrogato dal d.lgs. n. 61/2000-, art. 16, comma 2, art. 18, comma 1, lett. b) è stata consolidata nella legislazione successiva (l’espressione «comparativamente più» diventa prevalente, (art. 4, comma 2 e art. 8 comma 1, qui con riferimento alle confederazioni, d.lgs. n. 532/1999; art. 1, comma 3, art. 7 comma 1 art. 12, comma 1, d.lgs. n. 61/2000; art. 7, comma 2, art. 9, comma 1, art. 10, commi 7 e 9 d.lgs. n. 368/2001; art. 1, comma 2, lett. k, art. 9, comma 5, art. 13, comma 3, art. 17, commi 1 e 2 d.lgs. n. 66/2003) seppur senza scalzare del tutto l’altra, «maggiormente» (art. 10, comma 3, d.lgs. n. 368/2001; art. 16, comma 2 d.lgs. n. 66/2003) che riaffiora anche nel nostro decreto (art. 12, comma 3, art. 86, comma 8 d.lgs. n. 276/2003).

Fin qui il salto è contenuto; il salto vero viene poi, nell’uso della “particella” precedente i soggetti di volta in volta legittimati, che può essere “determinata” – riferita a tutti – o “indeterminata” – riferita a uno o più indifferentemente -. Ora, a scorrere il testo, ci si accorge facilmente, dell’esistenza di una regola circa il ricorso alla particella: “determinata” ove sia in questione un processo latamente concertativo («sentite» le: art. 7, comma 1, art. 12, commi 6 e 8, art. 17, comma 4, e 8, art. 48, comma 4,  art. 49, comma 5, art. 50, comma 3, art. 55, comma 2, art. 58, comma 1, art. 83, comma 2, art. 86, commi 8 e 12), “indeterminata” ove siano in gioco contratti («stipulati da»: art. 11, comma 2, art. 20, comma 3, lett. i, e comma 4, art. 34, comma 1, art. 37, comma 2, art. 46, comma 1, lett. b, art. 48, comma 4, lett. c, art. 49, commi 3 e  5, lett. b, art. 55, comma 2; art. 58, comma 1, art. 78, comma 4, art. 84, comma 2: ma vedi art. 14, comma 1 e 86, comma 13), regola, quest’ultima, che rappresenta una rottura nella legislazione precedente al 2003, (anche in caso di contratti dominava «stipulati dai»: art. 1, comma 2, lett. a, comma 4, lett. a, comma 8, art. 13, comma 7 – prima di essere abrogato - l. n. 196/1997; art. 7, comma 2, art. 9, comma 1, art. 10, commi 3, 7, 9 d.lgs. n. 368/2001; art. 1, comma 3, art. 3, comma 2, art. 7, comma 1 d.lgs. n. 61/2000) trovando la prima esemplificazione nel d.lgs. n. 66/2003 (art. 1, comma 2, lett. k).

In tal modo viene costruito un duplice, cumulativo meccanismo di sicurezza a fronte di un possibile blocco di un processo negoziale attuativo di questo o quel disposto del testo: col requisito di «comparativamente più rappresentativo» si dovrebbe ridurre il numero dei soggetti legittimati; fatto, questo, che di per sé tenderebbe a favorire le associazioni aderenti alle grandi confederazioni in ragione dell’essere normalmente ai primi posti per numero di iscritti, se di, contratti definiti e sottoscritti, scioperi promossi; con l’uso della particella “indeterminata”, cioè «stipulati da», si dovrebbe legittimare un negoziato o un accordo anche se “separato”, superando, così l’eventuale blocco conseguente ad un conflitto intersindacale riconducibile sia ad un “fisiologico dissenso tecnico” sia ad un “patologico veto politico”. Un duplice meccanismo, questo, che viene ulteriormente rafforzato in alcuni casi significativi di contratti/clausole autorizzativi dal già visto potere “sostitutivo” del Ministro, esercitabile quando, per qualsiasi motivo, si verifichi uno stallo negoziale, tale da impedire il decollo di un istituto o di un contratto (art. 12, comma 3, art. 34, comma 1, art. 40, comma 1, art. 37, comma 2, art. 55, commi 2 e 3).

All’occhio attento di un addetto ai lavori non può sfuggire come vi sia in tutto questo un tantino di “ipocrisia” e di “superficialità”. Della prima, perché, se pur si evita di parlare di confederazioni, esse continuano a dominare sullo sfondo, come soggetti posti al vertice delle rispettive organizzazioni, come tali gli unici in grado di svolgere quella funzione di coordinamento, che emerge esplicitamente dall’art. 86, comma 13 ed implicitamente dalla stessa articolazione della struttura contrattuale a più livelli, orizzontali e verticali, data per affatto scontata nel testo legislativo; della seconda, perché, se pur si cerca di far finta di niente, ritornano aggravate vecchie questioni circa l’efficacia ultra vires dei contratti collettivi, problema tanto più complesso quanto più sia stretto e indissolubile il collegamento fra legge e autonomia collettiva, come nelle ipotesi di una negoziazione “autorizzatoria” o “derogatoria”. Aggravate, oggi rispetto a ieri, dalla stessa “legittimazione” degli accordi separati, che, peraltro, si fa fatica a immaginare che cosa valga e produca, tenuto conto di una giurisprudenza assai attenta ad impedire “appropriazioni indebite” di quote di rappresentanza sindacale; nonché dalla varietà dei riferimenti legislativi, perché i rinvii nei confronti dei contratti collettivi avvengono di regola senza alcun riferimento alla loro applicabilità o applicazione, ma, a volte, con tale riferimento, («applicati»: art. 14, comma 1, lett. d, art. 22, comma 2, art. 23, comma 4, art. 28, comma 1, art. 46, comma 1, lett. a, art. 86, comma 10, lett. a, d.lgs. n. 276/2003; «applicabili»: art. 5, commi 2, lett. d, 3, lett. c, art. 21, comma 1, lett. j – che lo riferisce ai «trattamenti retributivi» - art. 22, comma 3, art. 23, comma 9, d.lgs. n. 276/2003).

Nonostante le resistenze addirittura teorizzate nel Libro Bianco circa il totale superamento dell’art. 39, comma 2 e ss. Cost., a pro del reciproco riconoscimento, questo non è in grado, né giuridicamente, né politicamente di produrre un effetto esteso al di là del rispettivo potere di rappresentanza. Sicché, prima o poi, bisognerà mettere mano a quella riforma che la c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego intendeva anticipare; costruita, cioè su un duplice criterio: il primo, di selezione degli agenti contrattuali, secondo standard qualitativi/quantitativi più precisi e elevati – per avere interlocutori accreditati e responsabili -; il secondo, di legittimazione degli accordi, in quanto “maggioritari”, sottoscritti a nome del 50% più uno (o confermati dal 50% più uno).

   5.B  Ulteriore “destrutturazione” della struttura contrattuale - Nel testo del decreto si ritrova la tradizionale struttura organizzativa e contrattuale: come visto si accenna agli accordi interconfederali (artt. 78, comma 4, 84, comma 2, 86, comma 13, e per rinvio a questo, artt. 40, comma 1, e 55, comma 3) anche se non si fa menzione delle confederazioni; e si parla di contratti collettivi, nazionali territoriali e aziendali nonché, rispettivamente, di associazioni dei datori e dei lavoratori comparativamente più rappresentative, nazionali, territoriali (o regionali), e di rappresentanze sindacali aziendali ex art. 19 Stat. lav. o di rappresentanze sindacali unitarie.

Il fatto è che non sussiste una piena rispondenza delle espressioni utilizzate. Secondo un primo modulo, è indicato solo il livello del contratto collettivo, in una duplice variante: 1. a volte, è specificato in base alla categoria, come nei richiami al «contratto collettivo nazionale delle imprese di somministrazione di lavoro» (art. 5, comma 2 lett. d) e comma 3 lett. c, dove però vi è l’aggiunta «applicabile»; art. 12, commi 3 e 4); 2. a volte è accompagnato dal riferimento agli agenti negoziali, che devono essere «comparativamente più rappresentativi», senza aggiungere in quale ambito, come nei rinvii «ai contratti collettivi nazionali» ovvero «nazionali o territoriali» (stipulati da «sindacati comparativamente più rappresentativi»: art. 20, comma 3, lett. i, e rispettivamente comma 4); ai «contratti collettivi» «a livello nazionale, territoriale o aziendale» (stipulati «da associazioni di datori o prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative»: art. 48, comma 4 lett. c, e art. 49, comma 5 lett. b). Il problema di “corrispondenza” non si pone nella variante 1., bensì nella 2., perché, - precisato il livello del contratto collettivo, ma non l’ambito nel quale misurare il carattere «comparativamente più rappresentativo» degli agenti negoziali - viene da chiedersi se il livello del primo definisca automaticamente l’ambito del secondo: certo, se è «nazionale» il livello, deve essere nazionale anche l’ambito; ma se è «territoriale» il livello, deve essere territoriale anche l’ambito, e se è «aziendale» il livello…qual è l’ambito ? (qui non è detto, come altrove, che il contratto aziendale sia stipulato dalle rsa o dalle rsu (artt. 46, comma 1, lett.b e 58, commi 1 e 2). Pare, conformemente a quanto verrà detto in seguito, che se il livello è «territoriale» siano legittimati a trattare sia gli agenti negoziali che risultino «comparativamente più rappresentativi» in ambito nazionale, sia, in aggiunta, quelli che risultino tali solo in ambito territoriale; mentre, se il livello è «aziendale», il responso più corrispondente alla lettera sarebbe stato di ritenere accreditate a negoziare le rsa facenti capo ad associazioni «comparativamente più rappresentative» in ambito aziendale (?).

Stando ad un secondo modulo, è indicato sia il livello del contratto collettivo sia l’ambito dove misurare il carattere «comparativamente più rappresentativo» degli agenti negoziali, come nei rinvii ai «contratti collettivi nazionali» o «nazionali o territoriali» stipulati da «associazioni di datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» ed «ai contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali … ovvero dalle rappresentanze sindacali unitarie» (art. 46, comma 1 lett. b, e, per richiamo diretto o indiretto, lett. e, f; j, k, l, o , r, s; art. 58, commi 1 e 2). Il problema di “corrispondenza” pare risolubile nel senso che se il livello «nazionale» o «nazionale o territoriale», chiama in causa agenti negoziali “comparativamente più rappresentativi” in ambito «nazionale», essi, solo per questo, sono legittimati a trattare all’uno e all’altro livello; mentre il livello «aziendale» rinvia esplicitamente alle rsa e alle rsu.

Terzo ed ultimo viene il modulo dove è solo indicato l’ambito in cui gli agenti negoziali devono essere «comparativamente più rappresentativi», come nei rinvii ai «contratti collettivi» stipulati da «associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale» (art. 14, comma 1), sul piano «nazionale o regionale» (art. 49, comma 3) «a livello nazionale o territoriale» (art. 11, comma 2) «sul piano nazionale o territoriale» (artt. 34, comma 1 e 37, comma 2). Il problema di “corrispondenza” pare risolubile nel senso che se l’ambito rispetto cui gli agenti negoziali devono essere «comparativamente più rappresentativi», è «nazionale», quelli che risultano tali, sono legittimati a trattare a livello nazionale e territoriale; se è anche «regionale» o «territoriale», oltre ai primi, pure coloro che risultino tali esclusivamente in tale ambito sono accreditati a negoziare a quest’ultimo livello.

Questo è quello che appare a prima vista, tale, comunque, da restituire una struttura non solo contrattuale ma anche associativa basata sulla categoria, assunta come referente privilegiato sia del livello di negoziazione che dell’ambito di rappresentatività; una categoria, peraltro, non ben raccordata né verso l’alto, con la dimensione intercategoriale, né verso il basso, con la dimensione territoriale ed aziendale. E’ la solita vecchia questione dei raccordi, a cominciare da quelli “soggettivi”, interni ai singoli agenti sindacali, funzionali alla distribuzione dei poteri negoziali fra le varie istanze orizzontali e verticali; questione che deve essere lasciata all’autonomia collettiva, con il minimo di incursione legislativa, tant’è che il legislatore avrebbe dovuto dire con molta maggiore chiarezza di quella usata, che le associazioni comparativamente più rappresentative in ambito nazionale siano sempre titolate a stipulare contratti a tutti i livelli, «nazionale», «territoriale», «aziendale» (tramite le loro istanze territoriali e le loro rsa, almeno in carenza di rsu); mentre, a queste, possono aggiungersi quelle comparativamente più rappresentative sul piano regionale o territoriale (non aziendale, dove ci si può limitare a chiamare in causa le rsa e/o le rsu) allorché trattasi di contratti a livello regionale o territoriale. Non ci sono però solo i raccordi “soggettivi”, bensì anche quelli “oggettivi”, riguardanti i rapporti fra i livelli contrattuali, con tutta la loro coda di rinvii, rispetto a cui si trascina ab immemorabili la questione della loro efficacia, risolta nel settore pubblico, qualificandola come reale, ma, a quanto sembra, solo… a parole; sicché il legislatore può avere avuto ragione a tacere completamente.

Il fatto è che fra voci e silenzi, la struttura contrattuale presupposta e tenuta a referente dal testo legislativo enfatizza la sua doppia faglia: quella, vista prima, di una pluralità concorrenziale di agenti negoziali, senza alcuna regola che li selezioni per la trattativa, e di una possibilità di prodotti contrattuali, senza alcuna norma che ne garantisca la rispondenza ad una maggioranza di rappresentati o di votanti; quella, ricordata ora, di una articolazione contrattuale che, oltre a scontare ad ogni livello quella pluralità/possibilità non regolamentata, resta affidata solo a se stessa per quanto attiene alle cerniere di snodo. 

A conclusione di questo discorso, due brevi cenni. Il primo ai molti rinvii ai contratti collettivi (art. 21, comma 2, art. 35, commi 2 e 3, art. 36, commi 1 e 6, art. 41, comma 3, art. 43, comma 2, art. 53, comma 2, art. 59, comma 2, art. 61, comma 4, art. 86, comma 2) e alla contrattazione collettiva (art. 24, comma 2, art. 43, comma 1) che non sono accompagnati da alcuna specificazione, sì da richiedere di essere interpretati e letti nel contesto, verificando se siano meri richiami di contratti collettivi precedentemente qualificati con rispetto al loro livello e/o alla qualità/livello dei soggetti stipulanti, ovvero rinvii generali ed aperti.

Il secondo accenno sui casi di coinvolgimento sindacale nei processi etichettabili come “partecipativi”: qui, a volte, il livello associativo delle parti stipulanti, seppur non definito, è facilmente individuabile (nazionale nell’art. 5, comma 1, lett. c e nell’art. 86, comma 8; regionale nell’art. 7, comma 1); ma di regola è precisato («sul piano nazionale» artt. 12, comma 8, art. 48, comma 4, art. 52, comma 1, art. 86, comma 12; «sul piano regionale» art. 49, comma 5;  «territoriale» art. 50, comma 3).

   5.C. Il peso comparato dei rinvii ai contratti collettivi: tra vecchi e nuovi regimi, fornitura/somministrazione di lavoro e part-time - Non c’è, dunque, dubbio che i rinvii ai contratti collettivi sono tanti, ma non è il loro numero, bensì il loro peso ad essere oggetto di un dibattito molto intenso. Certo, ci vorrebbe un esame puntuale e dettagliato, ma qui può bastare limitarsi ad un sia pur sommario confronto fra “vecchio” e “nuovo” con riguardo a due tipologie riprese e ridisciplinate dal decreto legislativo in esame: il contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo di cui già al “pacchetto Treu”, e, rispettivamente, il part-time di cui da ultimo al d.lgs. n. 61/2000, come novellato dal d.lgs. n. 100/2001.

Naturalmente c’è molto di cambiato nel passaggio dagli artt. 1-11 della l. n. 196/1997 agli artt. 4-12 e 20- 28 del d.lgs. n. 276/2003, ma l’interesse è concentrato su quanto di tale cambiamento riguarda il ruolo dei contratti collettivi. Si può dire, in breve, che sia ridimensionato il potere “autorizzativo”, certo, il più importante e il più incisivo, perché tale da creare a carico della controparte una specie di “onere a contrarre” con riguardo all’intero istituto o a sue componenti significative. Ieri, il contratto di fornitura di lavoro temporaneo a tempo determinato - l’unico permesso - poteva essere concluso, in generale, in tre ipotesi, fra cui prima e principale quella costituita dai «casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria» (art. 1, comma 2) ed, in particolare, sperimentati nei settori dell’agricoltura, previa intesa a livello nazionale (art. 1, comma 3), fermo restando l’esclusione per «le qualifiche di esiguo contenuto professionali, individuate come tali di contratti collettivi nazionali della categoria» (art. 1, comma 4, lett. a). Oggi, il contratto di somministrazione a termine può essere stipulato «a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore», restando affidata ai contratti collettivi nazionali solo l’«individuazione anche in misura non uniforme di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione» (art. 20, comma 4), mentre, quello a tempo indeterminato - introdotto ex novo - può essere sottoscritto in una serie di ipotesi di cui solo l’ultima del tutto residuale, rinvia ai «contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali» (art. 20, comma 3, lett. i).

Al contrario, viene esteso il potere “derogatorio”, cioè un divieto posto prima come inderogabile diviene derogabile da parte dei contatti collettivi, il che si traduce pur sempre in un onere a contrarre per la controparte. Ieri, c’era il divieto assoluto, sanzionato penalmente ed amministrativamente, di percepire compensi per l’avviamento del lavoratore a prestazione di lavoro temporaneo (art. 10, comma 4); oggi, tale divieto può essere superato da contratti collettivi nazionali o territoriali «per specifiche categorie di lavoratori altamente professionalizzati o per specifici servizi offerti dai soggetti autorizzati o accreditati» (art. 11, comma 2). Ancora, ieri, era prevista la nullità di qualsiasi limitazione consensuale della «facoltà del lavoratore di accettare l’assunzione da parte dell’impresa utilizzatrice dopo la scadenza del contratto di fornitura di lavoro temporaneo» (art. 3, comma 6). Oggi, tale limitazione può essere valida, se «al lavoratore sia corrisposta una adeguata indennità, secondo quanto stabilito dal contratto collettivo» (art. 23, commi 8 e 9).

Una volta assicurata in tal modo una maggiore flessibilità di ricorso all’istituto, ridimensionando, in alcuni casi, ed introducendo, in altri, la mediazione sindacale, il testo legislativo in esame si mostra particolarmente generoso nel chiamare in causa i contratti collettivi, in funzione “estensiva”, come avviene nell’art. 5, comma 2, lett. d e comma 3, lett. c, dove, fra i requisiti per l’autorizzazione, sono contemplati per le agenzie di somministrazione “generaliste” e, rispettivamente, “specialiste” «il rispetto degli obblighi previsti dal contratto collettivo nazionale»; ed, in funzione “integrativa”, come succede nell’art. 21, comma 2, dove, a proposito degli elementi da includere nel contratto di somministrazione, è detto che nell’indicarli «le parti devono recepire le indicazioni contenute nei contratti collettivi».

Per il part-time il testo in esame interviene sul tessuto del d.lgs. n. 61/2000 con una lunga novella contenuta nell’art. 46, lett. a-t. C’è una sostanziale continuità nei rinvii alla contrattazione collettiva, destinata, così, a conservare la notevole rilevanza già riconosciutale. Qui, però, l’esigenza di una maggiore flessibilità trova la sua espressione paradigmatica in alcune modifiche, coincidenti nel senso di “compensare” l’eventuale carenza di contrattazione collettiva con la rivalorizzazione dell’autonomia privata: così quando «non è prevista o regolamentata dal contratto collettivo», «l’effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare richiede il consenso del lavoratore interessato» (art. 46, comma 1 lett. f); e «in assenza di contratti collettivi datore di lavoro e prestatore di lavoro possono concordare direttamente l’adozione di clausole elastiche o flessibili» (art. 46, comma 1 lett. s).

C’è da dire che una apertura alla autonomia individuale era già presente e che, comunque, qui sembra rispondere ancor prima alla esigenza di una “paralisi” dovuta alla assenza di una regolamentazione collettiva che ad una flessibilizzazione del part-time; e, questo, in ragione della lezione dei fatti maturata in precedenza, tale da far supporre una certa diffidenza ed inerzia sindacale. Certo, è possibile anche immaginare che norme siffatte disincentivino la controparte datoriale a convenire su una disciplina collettiva, inevitabilmente limitativa quanto a procedure e/o regole, visto che in mancanza le è aperta la via di una più facile e conveniente trattativa diretta con i singoli lavoratori. Ma non sembra che questa conclusione possa essere raggiunta a priori, visto che fare o non fare un contratto collettivo, farlo o non farlo con un certo contenuto, è una questione assai complessa non riducibile alle convenienze reciproche sull’uno o sull’altro punto isolatamente considerato. Qui è quanto mai opportuna una attesa paziente per vedere e verificare quale sarà la sorte e la ricaduta di questa apertura di credito alla autonomia privata.

6. Il sindacato dei “servizi”: intermediazione, fondi bilaterali per la formazione e l’integrazione del reddito, enti bilaterali - Quello visto è il filone promozionale, sviluppatosi secondo una duplice variante, quella “classica”, relativa alla partecipazione a consigli, collegi, commissioni e alla presenza sindacale nei luoghi di lavoro, e quella “moderna”, riguardante la c.d. gestione consensuale nel mercato del lavoro. Ma, accanto, ce ne è un’ altra, divenuta via via più rilevante, fino a trovare significativo riscontro nel testo legislativo in esame; cioè quella che valorizza il sindacato come prestatore di “servizi”, siano questi destinati al lavoratore solo come tale oppure al lavoratore come cittadino. Nel primo senso possono essere citate le Casse edili ed i Fondi predisposti per i bancari e per gli esattoriali o altri, di origine contrattuale, le une, con a scopo la gestione delle voci retributive maturabili presso più datori di lavoro, di origine legislativo-contrattuale, gli altri, con a fine quella copertura del reddito non assicurata ex lege (art. comma 28); nel secondo devono essere ricordati gli istituti di Patronato (da ultimo l. n. 152/2001) e i Centri di assistenza fiscale (art. 78 l. n. 413/1991, art. 1, d.lgs. n. 490/1998 che ha inserito un nuovo capo artt. 32 e ss. nel d.lgs. n. 241/1997).

Dietro a questo indirizzo contrattuale e legislativo c’è, certo, operante un principio di sussidiarietà orizzontale ante litteram, cioè la presa a carico in prima persona di ruoli copribili a maggior costo o scoperti; ma questo vale per le Casse edili e i Fondi per i bancari e gli esattoriali, mentre per gli istituti di Patronato e i Centri di assistenza fiscale contribuisce moltissimo l’obiettivo di favorire il sindacato, compensando la perdita di presa sul lavoratore “frantumato” e precario con quella acquisibile rispetto al pensionato e al contribuente, con in più l’acquisto di una fonte significativa di reddito.

a) Passando, ora, al capitolo scritto nel d.lgs. n. 276/2003, è d’obbligo cominciare con quel che costituisce un vero e proprio ritorno ad un passato eroico, quando il sindacato esercitava il collocamento, cioè con l’inclusione fra i soggetti che possono avvalersi di regimi particolari di autorizzazione per lo svolgimento «della attività di intermediazione» delle «associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative… firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro» (art. 6, comma 3).

b) Qui il sindacato è attore in proprio; ma può anche esserlo per via di fondi o di enti bilaterali. I fondi bilaterali per la formazione e l’integrazione del reddito sono appositamente costituiti «dalle parti stipulanti il contratto collettivo nazionale delle imprese di somministrazione di lavoro», come associazioni non riconosciute o riconosciute dal Ministro del lavoro. Come già detto sopra, essi sono chiamati a gestire le risorse derivanti da contributi versati dai soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro, in misura del 4% della retribuzione corrisposta ai lavoratori, con un ampio spettro di finalità nell’area della qualificazione e riqualificazione, della integrazione del reddito, della previdenza, ecc. (art. 12).

c) Più rilevanti sono gli enti bilaterali, definiti come «organismi costituiti ad iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro»; funzione, quest’ultima, esemplificata con una elencazione di attività - poi riprese in relazione alle singole discipline -, peraltro non esaustiva, chiusa com’è dall’inclusione di «ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento» (art. 2, comma 1, lett. h).

E’ interessante sottolineare come, di regola, l’Ente bilaterale rappresenti uno strumento dall’utilizzo “facoltativo”, messo a disposizione delle parti stipulanti il contratto collettivo che disciplina la relativa attività: il Fondo bilaterale per la formazione e l’integrazione del reddito può essere costituito «anche nell’ente bilaterale», «dalle parti stipulanti il contratto collettivo nazionale delle imprese di somministrazione di lavoro» (art. 12, comma 4); la determinazione delle modalità di erogazione della formazione attribuita «ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative» può essere effettuata, «anche all’interno degli enti bilaterali» (art. 48, comma 4, lett. c e art. 49, comma 5, lett. b); la determinazione delle «modalità di definizione dei piani individuali di inserimento» riconosciuta ai «contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» ed ai «contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali… ovvero dalle rappresentanze sindacali unitarie» può essere realizzata «anche all’interno degli enti bilaterali» (art. 55, comma 2).

Questa è la regola, ma c’è una duplice eccezione. La prima è costituita dal fatto che gli enti bilaterali possono accedere direttamente ai regimi particolari di autorizzazione per l’esercizio dell’attività di intermediazione; e così risultano promossi da strumenti facoltativi di utilizzo, legittimati da specifici contratti collettivi, a soggetti dotati di un titolo proprio, allo stesso modo delle «associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative… firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro» (art. 6, comma 3). Se questa prima eccezione vede, comunque, gli enti bilaterali co-protagonisti con le associazioni dei datori e prestatori di lavoro, la seconda riconosce loro un ruolo di protagonista, potendo le associazioni medesime agire solo indirettamente per loro tramite: l’elencazione dei soggetti presso cui possono essere insediate le Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro, contempla in apertura «gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento, ovvero a livello nazionale quando la Commissione di certificazione sia costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale» (art. 76, comma 1, lett. a); e, la presentazione di un ricorso giurisdizionale contro la certificazione passa attraverso un previo tentativo obbligatorio di conciliazione, da espletare ai sensi dell’art. 410 c.p.c., di fronte alla commissione che ha effettuato la certificazione (art. 80, comma 4).

Può sorprendere che il pezzo della nuova legislazione su cui si è appuntata in particolare la critica sia stato quello degli enti bilaterali, con riguardo sia alla modalità della loro costituzione, sia alla rilevanza dell’attività svolta. Quanto alla prima, si è detto che essa risulterebbe tale da permettere l’istituzione di enti bilaterali anche in via “separata”, senza la partecipazione di tutte le associazioni sindacali; cosa, questa, che sembra confermata dalla definizione offertane dall’art. 2, comma 1, lett. h, come «organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative». Anche precisato che un conto è dar vita ad un ente bilaterale, ed un conto è legittimarlo a svolgere le attività previste dalla legge. Vi sono attività che possono essere gestite dall’ente bilaterale come soggetto in proprio (artt. 6, comma 3 e 76, comma 1, lett. a), richiedendo, quindi, quale requisito minimo, solo l’iniziativa di due associazioni contrapposte; e ve ne sono altre che devono essere condotte dall’ente bilaterale come strumento di una previa contrattazione collettiva (artt. 12, comma 4, 48, comma 4, lett. c, 49, comma 5, lett. b, 55, comma 2), presupponendo, dunque, quale requisito ulteriore, un contratto collettivo anche «separato» che lo investa di una o più delle attività suddette.

Da qui le riserve della Cgil che sembrano solo riprodurre quelle avanzate più in generale in merito alla possibilità di una contrattazione separata. Ma qui l’impressione è che tali riserve risultino rafforzate non solo dal carattere stabile ed operativo del “prodotto contrattuale”, cioè la costituzione dell’ente bilaterale e/o l’attribuzione allo stesso di una o più delle attività previste dalla legge; ma anche dal modello cooperativo incorporato, nonché dal fatto che almeno alcune di tali attività vengano viste e vissute come pubbliche, dunque tali da dover essere a diretta e immediata gestione statale o regionale.

7. Tipologie contrattuali e normative “trasversali” – Senza alcun dubbio il dato più impressivo del decreto, è dato dalla moltiplicazione dei tipi contrattuali: la fornitura di lavoro temporaneo viene sdoppiata in somministrazione a tempo determinato e indeterminato; e il contratto di apprendistato addirittura triplicato in relazione all’obiettivo formativo, cioè per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, professionalizzante, per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione; il part-time viene rimodellato secondo la più ampia gamma di combinazioni orizzontali, verticali e miste; il distacco emerge dall’aquis giurisprudenziale; il lavoro a progetto prende il posto di gran parte dell’esangue collaborazione coordinata e continuativa (lasciandola in vita per il “pubblico” e per figure specifiche o marginali), il “nuovo” contratto di inserimento sostituisce in larga misura il contratto di formazione e lavoro (lasciandolo sopravvivere per il “pubblico”), senza che peraltro sia chiaro il suo rapporto col “vecchio” contratto di inserimento; il lavoro intermittente, il lavoro accessorio, il lavoro ripartito e il lavoro occasionale entrano in scena per la prima volta. 

Un impegno pesante per l’interprete, chiamato a confrontarsi con tutti questi tipi novati, modificati, introdotti ex novo: per collocarli nel discontinuum fra lavoro subordinato ed autonomo; per identificarli e distinguerli, visto che alcuni sono tanto contigui da dare l’impressione di sovrapporsi ai margini; per ricostruire discipline non di rado incomplete e criptiche. Ma non è questo quel che ci si ripromette qui, bensì solo di leggere la politica del diritto rintracciabile al di sotto di una tale moltiplicazione, tanto esaustiva, da apparire, per alcune ipotesi, dettata più dalla voglia di recuperare esperienze straniere che da una constatata e sperimentata esigenza.

Riprendendo un’impressione ricavata dalla lettura del Libro Bianco, dietro c’è una politica del diritto che vuole recuperare tutta la domanda di lavoro esistente, cioè non solo quella finalizzata a comprare forza lavoro “stabile” e “intera”, ma anche “precaria” e “divisa”, rendendola conveniente attraverso una strumentazione su misura. Per non banalizzare tale politica, occorre presentarla nella sua interezza, con alcune puntualizzazioni circa l’equilibrio in termini di garanzia fra i tipi, il programma di tutela, il risultato finale atteso.

Almeno sul piano della proposta del Libro Bianco, l’equilibrio in termini di garanzia fra i vari tipi contrattuali rifletteva uno scambio compensativo: da un lato, ci sarebbe stato “l’attivo”, costituito dal recupero - per mezzo del lavoro a progetto - dello spazio “protettivo” sottratto dal lavoro pseudo-autonomo di tanta collaborazione coordinata e continuativa, nonché – per mezzo del triplice contratto di apprendistato ben distinto da quello di inserimento - dello spazio “formativo”, ridotto se non annullato dal contratto di formazione e lavoro; dall’altro, si sarebbe verificato il “passivo”, rappresentato dal varo di “tipi precari”. Non solo, perché tale  “attivo” avrebbe dovuto ricomprendere anche un programma di tutela per questi tipi precari, articolato sia su un livello minimo a misura di ogni singolo rapporto, sia su un net protettivo sul mercato del lavoro, in termini di servizi e supporti sociali. 

Il tutto era accompagnato dalla precisa consapevolezza che tale moltiplicazione avrebbe potuto dar luogo ad una elevata manipolazione nelle prassi quotidiane e ad una intensa utilizzazione delle aule di giustizia, sì da essere accompagnata da un istituto quale quello della certificazione, già elaborato e messo a punto nella proposta di Tiziano Treu.  

Il fatto è che questo “attivo” non risulta o risulta assai ridotto nel decreto. Certo, stando alla lettera, il lavoro a progetto potrebbe servire alla bisogna, tenuto conto che il progetto – elevato a risultato di un processo di auto-organizzazione, definibile e delimitabile nel più ampio contesto dell’organizzazione imprenditoriale in cui deve confluire, e configurato come elemento essenziale e imprescindibile del rapporto – è ben in grado di funzionare da filtro estremamente selettivo, assai più e meglio della collaborazione coordinata e continuativa, sì da mantenere nel rapporto di lavoro autonomo solo quello che autenticamente e genuinamente gli appartiene. Tanto in grado da risultare eccessivo rispetto alla prassi consolidata, fino al punto di ricondurre ad una interpretazione assai più lassa e comprensiva lo stesso Ministero del lavoro, come ben testimonia la recente circolare in proposito; anche se una circolare è solo… una circolare, sicché c’è da attendere la parola della Magistratura, che ben potrebbe optare per una esegesi più fedele alla ratio e alla lettera della legge, per ragioni sia di convinzione - continuità rispetto alla linea, un po’ invecchiata ma ancora presente, della pan-subordinazione -, sia di opportunità – facilità nel tracciare la linea di confine fra lavoro autonomo e lavoro subordinato -.

Sempre dall’ “attivo” preventivato occorre togliere, almeno per ora, un contratto di apprendistato triplicato ma al tempo stesso congelato, e, comunque, tale da richiedere risorse finanziarie difficilmente prevedibili anche per il futuro. Occorre, altresì, scontare un programma di tutela dei tipi “precari” dimezzato, con il varo di un livello minimo di tutela costruito a misura di ogni singolo rapporto, ma con il rinvio a un futuro più o meno prossimo di quel net protettivo sul mercato del lavoro (fatto non solo di servizi ma anche di supporti “sociali”), che solo realizzerebbe effettivamente quello destinato a rimanere, tutt’oggi, poco più di un felice slogan, cioè lo spostamento della protezione dal rapporto al mercato.

Non rimane così che attendere il completamento dell’intero intervento, considerando quello attuale solo un pezzo di un discorso più ampio e completo. A bocce ferme, il giudizio del giurista non può che essere critico; mentre quello del politico può anche essere più aperto, perfino ottimista, se e in quanto creda che alla fin fine, con una espansione della economia e della domanda di lavoro, la forza lavoro assunta e socializzata come precaria verrà largamente stabilizzata. Naturalmente può essere che vada così, con qualche conferma a favore di questa previsione derivante dall’esperienza del pacchetto Treu; può essere, ma può anche essere, al contrario, che la forza lavoro attualmente stabile sia in parte sostituita da quella precaria, assunta in forza della nuova legge.

   7.A. Certificazione - La consapevolezza di cui si è parlato, cioè di una possibile ricaduta della moltiplicazione dei tipi contrattuali in termini di facilitazione degli abusi  e crescita dei processi, trova ampia e peculiare espressione nel testo del decreto. Si comincia col riconoscere ancora una volta al Ministro del lavoro un ruolo di guida, attribuendogli un “potere interpretativo” da esercitare con propri decreti. Un primo caso  è dato dall’art. 18, comma 6, per cui entro sei mesi dall’entrata in vigore, deve adottare «criteri interpretativi certi per la definizione delle varie forme di contenzioso in atto riferite al pregresso regime in materia di intermediazione e interposizione nei rapporti di lavoro»: qui sembrerebbe che il destinatario sia il giudice, dato che si parla  di contenzioso, ma è dubbio sia l’an  e il quantum  di un simile vincolo a carico del potere giudiziale.

Il capitolo più ricco è rinvenibile a proposito della certificazione con a evidenti destinatari le apposite commissioni, parificate a collegi amministrativi, rispondenti al Ministro: qui, oltre ai due casi già menzionati degli artt. 78, comma 4, e 84, comma 2, c’è da ricordare quello ulteriore offerto dall’art. 78, comma 5,  per cui il Ministro definisce «appositi moduli e formulari per la certificazione del contratto o del relativo programma negoziale, che tengano conto degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti in materia di qualificazione del contratto di lavoro, come autonomo o subordinato, in relazione alle diverse tipologie di lavoro».

L’istituto della certificazione è forse il più complesso e il più tentante per l’interprete, tutto costruito ex novo e zeppo di implicazioni sostanziali e processuali, imbastite più che definite dal legislatore, con una accentuazione di quella “sportività” caratterizzante l’intero decreto. Secondo l’approccio prescelto, l’intento non è qui di sciogliere i nodi interpretativi con un rigoroso metodo tecnico giuridico, ma di collocare l’istituto, così come appare prima facie, nel contesto della politica del diritto leggibile nell’impianto e nel contenuto dell’intero intervento legislativo.

E’ del tutto evidente l’intento di fare delle Commissioni di certificazione lo strumento di snodo fra diritto scritto e diritto applicato, come ben risulta dal “fine” dichiarato in apertura, cioè «di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro intermittente, ripartito, a tempo o parziale e a progetto… nonché dei contratti di associazione in partecipazione di cui agli artt. 2549-2554 del codice civile» (75, comma 1); e dall’ambito assai ampio, ricomprensivo dei contratti appena citati e dell’«interposizione illecita e appalto genuino» con riguardo sia alla «stipulazione di appalto di cui all’art. 1655 del codice civile» sia alle «fasi di attuazione del relativo programma negoziale», «anche ai fini della distinzione concreta tra la somministrazione di lavoro e appalto» (art. 84, comma 1). Non solo perché, oltre alle Commissioni “generali” sono previste «specifiche commissioni», competenti a certificare il contenuto «del regolamento interno delle cooperative riguardanti la tipologia dei rapporti di lavoro attuati o che si intendono attuare, in forma alternativa con i soci lavoratori» (art. 83). 

Si deve aggiungere che le Commissioni “generali” svolgono anche «funzioni di consulenza e assistenza effettiva alle parti contrattuali, sia in relazione alla stipulazione del contratto di lavoro e del relativo programma negoziale sia in relazione alle modifiche del programma negoziale medesimo concordato in sede di attuazione del rapporto di lavoro» (art. 81, comma 1). E, cosa di gran lunga più importante, quelle istituite presso gli enti bilaterali «sono competenti… a certificare le rinunzie e transazioni di cui all’art. 2113 del codice civile» (art. 82, comma 1), e le rinunce e le transazioni relative ai «diritti derivanti dalle disposizioni contenute» nel capo dedicato al lavoro a progetto (così secondo l’interpretazione più ovvia l’art. 68, comma 1).

Naturalmente il rilievo dell’istituto è tutto nella sua efficacia giuridica: quanto “certificato”, comprensivo degli «effetti, civili, amministrativi, previdenziali o fiscali, in relazione ai quali le parti (lo richiedono) (art. 78, comma 2) sono “congelati”, cioè «permangono anche verso i terzi fino al momento in cui sia stato accolto con sentenza di merito uno dei ricorsi giurisdizionali… fatti salvi i provvedimenti cautelari»(art. 79): qui molto dipende da come viene interpretato questo disposto, se con riguardo alla sola «qualificazione» iniziale dei rapporti, contenuta nell’atto di certificazione, ovvero anche alla difformità successiva tra tale qualificazione e la «successiva attuazione», ma, a stare alla lettera, sembra proprio che questa seconda estensiva sia da condividere, e comunque risponda alla già vista intentio del legislatore. Non pare, invece, che l’interpretazione possa essere forzata per estendere ulteriormente la portata della certificazione, sì da farle ricomprendere non solo la «qualificazione» iniziale, ma anche la «successiva attuazione», per ragioni non solo di lettera (art. 75, comma 1 «in materia di qualificazione dei contratti di lavoro», a contrario art. 84, comma 1 «sia in sede di stipulazione… sia nelle fasi di attuazione») ma anche di sistema essendo difficile pensare alle Commissioni come organi investiti di una vera e propria attività istruttoria, non confinabile alle dichiarazioni delle parti senza avere poteri e senza poterla trasferire di peso in un futuro processo.

Anche a non condividere quest’ultima forzatura interpretativa la ricaduta resta rilevantissima, perché risulta bloccato tutto fino ad una sentenza di merito, rimessa ai tempi lunghi del processo del lavoro. Per la parte che voglia  “rovesciare” la certificazione, la strada è lunga e faticosa, passando, prima, attraverso un previo tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c., di fronte alle Commissioni di certificazione; procedendo, poi, ad un ricorso, a fronte del giudice ordinario o amministrativo: del primo, per accertare la erroneità della «qualificazione» e/o «la difformità tra programma negoziale e quello effettivamente realizzato» (art. 80, comma 2); del secondo, per attestare la «violazione del procedimento» o «l’eccesso di potere» (art. 80, comma 5).

Passiamo sopra qui all’autentica “perla” costituita dalla chiamata in causa del giudice amministrativo, probabilmente riconducibile allo zelo di uno di quei consigliori, “amministrativi” di spirito e di ruolo, che abbondano nei meandri dei Ministeri, per cui se un organo deve essere considerato amministrativo, qui per poterlo “subordinare” al Ministro del lavoro, e il suo prodotto un provvedimento, allora non c’è niente da dire e da fare se non investire Tar e Consiglio di Stato del relativo contenzioso, a prescindere… Il che ignora del tutto il mutamento in atto nel criterio di riparto della giurisdizione da uno per posizioni soggettive tutelate e decisioni attese, ad uno per materie; ma questo sarebbe il meno, perché, per quanto sia, anche la tradizionale giurisdizione per vizi di legittimità estesa com’è all’abuso di potere finisce inevitabilmente per estendersi anche al merito.

Passando oltre, occorre dire che rispetto al ricorso di fronte al giudice ordinario il legislatore rivela un evidente senso di diffidenza. Non perché, fatto più che ovvio e condivisibile dice che egli può valutare - ex artt. 9, 92, 96 c.p.c. - «il comportamento complessivo tenuto dalle parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro e di definizione della controversia davanti alla Commissione di certificazione» (art. 80, comma 3); bensì perché si preoccupa di porre “paletti” per quanto riguarda sia l’estensione del sindacato, sia la decorrenza dell’«accertamento giudiziale».

I primi valgono sempre e comunque, a prescindere dal fatto che ci sia stata o meno una previa certificazione, e potevano essere più o meno dedotti dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti; ma significativamente vengono precisati e irrigiditi. L’art. 27, comma 3, per cui «ai fini della valutazione delle ragioni di cui all’art. 20, commi 3 e 4, che consentano la somministrazione del lavoro il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento dell’esistenza  delle ragioni che la giustificano e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano all’utilizzatore»; e, per ritornare al caso da cui siamo partiti, quello del lavoro a progetto, l’art. 69, comma 3, secondo cui «il controllo giudiziale è limitato esclusivamente…all’accertamento dell’esistenza del progetto, programma di lavoro o fasi di esso e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni o scelte tecniche organizzative o produttive che spettano al committente».

I secondi, invece, sembrano essere posti, invece, allorché a monte ci sia una certificazione (ma perché?) in forza dei quali l’effetto dell’«accertamento giudiziale» decorre «dal momento della conclusione dell’accordo contrattuale», se ne è oggetto l’«erroneità della qualificazione»; «dal momento in cui la sentenza accerta che ha avuto inizio», se ne è oggetto «la difformità tra il programma negoziale e quello effettivamente realizzato» (art. 80, comma 2). Sembrerebbe un fatto ovvio, senza alcun rilievo, se non fosse che, così stando le cose, il giudice non può ricondurre sic et simpliciter la difformità alla fase iniziale, ma deve dar spazio in istruttoria e nella decisione alla sua effettiva emersione.

Un meccanismo quasi perfetto, quasi perché rimesso alla comune volontà delle parti (artt. 75, comma 1 e 78, comma 1). Ora è possibile individuare con relativa chiarezza l’interesse del datore di lavoro, il quale, senza esporsi ad alcun rischio, perché certo l’atto sottoposto alla certificazione risponderà a tutti i crismi legali, potrà realizzare l’obiettivo di bloccare le incursioni dell’INPS, la quale pur potendo essere presente, non ne avrà né tempo né voglia trattandosi di un pro forma; bloccarle fino ad una sentenza provocata dal lavoratore o dall’INPS medesima. E’ difficile invece, estremamente difficile capire dove starebbe l’interesse del lavoratore; fatto, questo, di cui il legislatore doveva certo essere consapevole, ma tranquillizzato dal ben noto fatto che il contratto lo fa il datore, specie se di fronte c’è un lavoratore con nessuno o scarso potere negoziale, com’è antropologicamente il precario; nonché dal coinvolgimento sindacale tramite gli enti bilaterali e comunque Commissioni di certificazione partecipate.

   7.B. Obbligo di sicurezza. - Proprio data la natura dei tipi contrattuali il legislatore si mostra particolarmente attento nei confronti dell’obbligo di sicurezza, essendo una precisa lezione dell’esperienza quella per cui i rapporti “scissi”, e/o “precari” abbattono il costo prevenzione a tutto rischio e danno dei lavoratori occupati. Un segno di questo interesse c’è già in apertura, in quell’art. 2, comma 1, lett. h che, nel declinare a capo degli enti bilaterali tutta una serie di attività, cita anche «lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro»; ma l’interesse diventa concreto con riguardo privilegiato alla somministrazione dove giocano al tempo stesso due fattori aggravanti, cioè la scissione fra somministratore e utilizzatore e la tendenziale variabilità dell’utilizzatore medesimo. L’art. 5, comma 2, per l’iscrizione all’albo di una agenzia di somministrazione richiede «in capo agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti muniti di rappresentanza e ai soci accomandatari…assenza di condanne penali… per delitti o contravvenzioni previsti da leggi dirette alla prevenzione degli infortuni sul lavoro»; mentre a proposito del contratto di somministrazione, l’art. 20, comma 4, lett. c lo vieta alle imprese «che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi»; l’art. 21, comma 1, lett. d, lo vincola alla forma scritta, con, fra i suoi elementi prescritti a pena di nullità, «l’indicazione della presenza di eventuali rischi per l’integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate»; l’art. 22, comma 5, lo disciplina coerentemente alla sua “essenza” con l’escludere la computabilità  del lavoratore «nell’organico dell’utilizzatore ai fini della applicazione di norme di legge o di contratto collettivo», ma, «fatta eccezione per quelle relative alla materia dell’igiene e sicurezza del lavoro».

Il disposto “centrale” è peraltro costituito dall’art. 23, comma 5, che ripartisce gli obblighi informativi, addestrativi e più convenzionalmente prevenzionistici fra somministratore e utilizzatore, in modo da stabilire che il primo «informa i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale e li informa e addestra all’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa per la quale essi vengono assunti», e che il secondo, oltre a poter assumere in proprio tale obbligo, (dandone poi indicazione nel contratto con il lavoratore), «nel caso in cui le mansioni cui è adibito il prestatore di lavoro richiedono una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici … ne informa il  lavoratore», e, soprattutto «osserva… nei confronti del medesimo prestatore, tutti gli obblighi di protezione previsti nei confronti dei propri dipendenti ed è responsabile per la violazione degli obblighi di sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi».

Alcune di queste norme ritornano nel “fratello minore” del contratto di somministrazione, cioè in quello del lavoro intermittente, caratterizzato da una prestazione comunque “a singhiozzo” nei confronti di un datore portato ad utilizzarla come un riempitivo, quindi facilmente disattento rispetto al raccordo in termini di prevenzione fra quella prestazione e l’organizzazione della produzione: l’art. 34, comma 3, lett. b riprende il divieto a ricorrervi «da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi»; e, a sua volta, l’art. 35, comma 1, lett. f, riproduce la richiesta della forma scritta, peraltro qui ai fini di prova, con, fra gli elementi richiesti, «le eventuali misure di sicurezza specifiche  necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto».

Lo stesso vale per il lavoro ripartito, dove la fungibilità soggettiva della prestazione può incidere sulla informazione/formazione relativa alla prevenzione, ogni qual volta vi sia una significativa differenza di attività fra l’uno e l’altro lavoratore: l’art. 42, comma 1, lett. c, nel fissare la forma scritta, ai fini di prova, include fra gli elementi richiesti «le eventuali misure di sicurezza specifiche necessarie in base al tipo di lavoro dedotto in contratto». Vale, altresì, per il lavoro a progetto, che, nonostante l’apparente irrigidimento rispetto alla collaborazione coordinata e continuativa, può esporre al rischio proprio di una attività caratterizzata dall’oggetto, ma non dal modo; tanto che anche qui l’art. 62, comma 1, lett. e, riproduce ancora una volta la formula già vista per cui il contratto deve essere stipulato in forma scritta e contenere ai fini della prova gli elementi elencati fra cui «le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore», peraltro, «fermo restando quanto disposto dall’art. 66, comma 4». E quest’ultimo, proprio con riferimento al caso normale, in cui per tutto o per un qualche tempo, «la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente» prevede l’applicazione delle «norme sulla sicurezza e igiene del lavoro..nonché le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali».

Per completezza, si deve ricordare qui l’art. 86, comma 10, modificativo dell’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 494/1996 -prescrivente misure per la tutela e per la sicurezza dei lavoratori - con la sostituzione della lettera b) e l’aggiunta di due altre lettere b-bis) e b-tris): tutte innovazioni funzionali al miglior controllo e alla repressione delle irregolarità e del lavoro nero negli appalti. In base alla nuova lettera b) è richiesta «alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo, distinto per qualifica, nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicate ai lavoratori dipendenti»; mentre, in forza delle nuove lettere b-bis e b-ter, sono pretese «un certificato di regolarità contributiva … rilasciato dall’INPS e dall’INAIL … dalle casse edili », nonché, rispettivamente, la trasmissione «all’amministrazione concedente, prima dell’inizio dei lavori …» del , «nominativo dell’impresa esecutrice dei lavori unitamente alla documentazione di cui lettere b e b-bis».

   7.C. “Incentivi e facilitazioni” – Venendo alla politica degli incentivi deducibile dal testo legislativo, essa sembra muoversi secondo una duplice coordinata: la prima è di privilegiare quelli “normativi” rispetto agli “economici”, sia per una vera o presunta lezione dei fatti, sia per la carenza di risorse economiche; la seconda è di considerare incentivi normativi anzitutto e soprattutto gli stessi tipi contrattuali, introdotti ex novo o modificati: la somministrazione, i contratti formativi, il lavoro intermittente, il part-time, il lavoro ripartito, il lavoro accessorio.

Si prendano i due primi tipi contrattuali, per vedere come, disposti che potrebbero sembrare portatori di “sconti normativi” in verità precisano aspetti propri dei tipi contrattuali così come confezionati: così, nel contratto di somministrazione, ex comma 3 dell’art. 22, l’indennità di disponibilità, da corrispondere nella variante a tempo indeterminato, è «esclusa dal computo di ogni istituto di legge o contratto collettivo»; ex comma 4, la procedura di messa in mobilità non è attivabile «nel caso di fine dei lavori connessi alla somministrazione a tempo indeterminato», ex comma 5 la manodopera “somministrata” non è computata «nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di normative di legge o di contratto collettivo», ex comma 6 la disciplina in materia di assunzioni obbligatorie non si applica nella somministrazione; così ancora, nel lavoro intermittente, ex comma 3 dell’art. 36 «l’indennità di disponibilità è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo» ed ex comma 3 dell’art. 38 «per tutto il periodo durante il quale il lavoratore resta disponibile a rispondere alla chiamata del datore di lavoro non è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati, né matura alcun trattamento economico e normativo, salvo l’indennità di disponibilità di cui all’art. 36».

Ritroviamo nell’art. 13, comma 1, fin dalla rubrica «Misure di incentivazione del raccordo pubblico-privato», ipotesi classiche di incentivi sia normativi che economici, visto che, come sottolineato a suo tempo, al fine di favorire i lavoratori svantaggiati, le Agenzie autorizzate alla somministrazione di lavoro possono «operare in deroga al regime generale della somministrazione»; nonché lucrare la differenza fra retribuzione da corrispondere ed eventuale indennità di mobilità, di disoccupazione, ecc., percepita dal lavoratore somministrato; e ritroviamo subito dopo un’altra ipotesi di incentivi normativi, previsti sempre allo stesso scopo, nell’art. 14, comma 3, laddove si considera «utile ai fine della copertura della quota di riserva» prevista dall’art. 3 legge 12 marzo 1999, n. 68, l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati nelle cooperative sociali.

Terreno da sempre elettivo degli incentivi è stato ed è a tutt’oggi quello del part-time e dei contratti “formativi”, laddove però appare chiaramente confermata l’impressione di una carenza di risorse, anche se coperta dall’esser stata questa parte stralciata, come testimonia a chiare lettere l’art. 46, comma 4, per cui «gli incentivi economici all’utilizzo del lavoro a tempo parziale» sono rinviati alla «riforma del sistema degli incentivi all’occupazione». In tema di apprendistato e di contratto di inserimento dispongono gli artt. 53 e 59, entrambi con una rubrica all’insegna di «incentivi economici e normativi»: ai sensi di entrambi, che riproducono le stesse espressioni, «la categoria di inquadramento del lavoratore» può essere inferiore fino a due livelli; «fatte salve specifiche disposizioni di legge o di contratto collettivo» (artt. 53, comma 1, e 59, comma 1) i lavoratori «sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da legge o da contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti» (artt. 53, comma 2, e 59, comma 2), e, con formula già vista, «in attesa di riforma del sistema degli incentivi all’occupazione restano fermi gli attuali sistemi di incentivazione economica» (artt. 53, comma 3, e 59, comma 2); con una differenza, però, che per l’apprendistato i sistemi sono quelli già previsti in passato, mentre per il contratto di inserimento sono quelli contemplati per il contratto di formazione lavoro di cui è destinato a prendere il posto nel settore privato, ad esclusione  dei «soggetti di età compresa tra i diciotto e i diciannove anni  » (artt. 59, comma 2, e 54, comma 1 lett. a)

Spigolando nel testo legislativo, è possibile ritrovare altre ipotesi di incentivi economici: l’art. 12, comma 7, per cui i contributi versati ai fondi per la formazione e integrazione del reddito sono esclusi dalla base imponibile dell’IVA; l’art. 25, commi 1 e 2, per il contratto di somministrazione, per cui il somministratore è tenuto a versare i contributi sulle indennità di disponibilità «per il loro effettivo ammontare, anche in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo» e, rispettivamente, è esentato dalla aliquota del contributo integrativo dovuto per l’assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria;  e, l’art. 72, comma 2, per il lavoro accessorio, per cui il compenso previsto per ogni buono consegnato «è esente da qualsiasi imposizione fiscale».

Non sono incentivi, ma “facilitazioni”, tali  da permettere un abbattimento dei costi, accentrando gli  adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti. I gruppi di impresa (ex art. 2359 c.c. e d.lgs. 2 aprile 2002, n. 74) possono delegarli alle società capogruppo, per tutte le società controllate e collegate (art. 31, comma 1); ed i consorzi, compresi quelli costituiti in forma di società cooperativa (ex art. 27 d.lgs. c.p.s. 14 dicembre 1947, n. 1577) possono svolgerli in proprio o delegarli ad una società consorziata, per conto dei soggetti consorziati (art. 31, comma 2). In entrambi i casi resta ferma la titolarità «delle obbligazioni contrattuali e legislative in capo alle singole società datrici di lavoro» (art. 32, comma 3).

   7.D. Sanzioni. – Il campionario di sanzioni a presidio dei tipi e della loro disciplina , in parte, recuperato dal passato ed, in parte, introdotto ex novo, è assai  vario, tanto da rendere difficile una loro classificazione. Utilizzando con una certa libertà categorie consolidate si possono ricordare anzitutto, le sanzioni di ripristino della legalità, a cominciare da quelle già viste negli artt. 11, comma 1,e  23, comma 8, che sanciscono, implicitamente o esplicitamente, la nullità di clausole  contrattuali.

Assai più frequenti e significative , perché funzionali a presidiare con una tutela “reale” le linee di confine più facilmente esposte ad essere violate, sono le sanzioni in cui  la nullità è accompagnata dalla “conversione”, come previsto chiaramente nell’art. 56, comma 1, a proposito del contratto di inserimento, laddove recita «in mancanza di forma scritta il contratto è nullo e il lavoratore si intende assunto a tempo indeterminato ».

Questo modello, però, ritorna nel testo legislativo  con più di una variante formale, tale da far nascere qualche incertezza interpretativa. In tema di contratto di somministrazione, la formula è nullità (ma con riguardo all’art. 21, comma 4, ma non all’art. 20)/conversione/pronuncia giudiziale: l’art. 21 (forma del contratto), comma 4, prescrive che «in mancanza di forma scritta, con indicazione degli elementi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del comma 1, il contratto di somministrazione è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore» e il successivo art. 27 (somministrazione irregolare), comma 1, aggiunge che in caso di inosservanza dell’art. 20 (condizioni di liceità) e dell’art. 21, come sopra citato, «il lavoratore può chiedere … al soggetto che ne ha autorizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione »; in tema, invece, di lavoro a progetto la formula è conversione/pronuncia giudiziale: l’art. 69, comma 1 e 2, stabilisce che «i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto … sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto» e , rispettivamente, che «qualora venga accertato dal giudice che il rapporto instaurato ai sensi dell’art. 61 sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti»; nel part-time la formula è esclusione della nullità/pronuncia giudiziale/conversione: l’art. 46, comma 1, lett. r) sancisce che «l’eventuale mancanza o indeterminatezza nel contratto scritto delle indicazioni di cui all’art. 2, comma 2, non comporta la nullità del contratto di lavoro a tempo parziale», e subito dopo che «qualora l’omissione riguardi la durata della prestazione lavorativa, su richiesta del lavoratore può essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale». 

Si potrebbe anche pensare che la variabilità della formula operata sia frutto dell’approssimazione tecnica connotante l’intero decreto; ma poiché nel diritto nomina sunt substantia rerum nasce nei primi due casi il sospetto  che in realtà il legislatore non volesse parlare di nullità seguita da conversione automatica, ma di annullabilità rimessa alla pronuncia giudiziale - comunque riconfermata apertis verbis come retroattiva- con la conseguenza di congelare la situazione fino a certezza giuridica acquisita; né più ne meno che come nella certificazione, “inattaccabile” fino alla sentenza. Sospetto che non è più soltanto tale, ma qualcosa di più nel terzo caso, dove si parte con  una esplicita esclusione di una nullità del contratto derivante da indicazioni “temporali” ricomprendenti anche quelle relative alla durata,  per poi rimettere alla sentenza del  giudice, secondo la lettera accertativa, ma di fatto costitutiva, se è vero che qui la conversione decorre dalla data della medesima, con sottesa una evidente preoccupazione per i costi. E’ inutile aggiungere che laddove la conversione venga ricollegata alla sentenza, si pone più di una delicata questione giuridica circa la situazione dei terzi,  in primis  gli istituti previdenziali, rispetto al pre - e al post – sentenza.

Sanzioni risarcitorie sono quelle offerte dall’art. 23, comma 6 , in tema di contratto di somministrazione laddove punisce l’utilizzatore che non abbia adempiuto all’obbligo di informare il somministratore circa l’adibizione  di un lavoratore a mansioni  non equivalenti a quelle contrattuali  con  l’«eventuale risarcimento del danno derivante» dall’assegnazione a mansioni inferiori; e dall’art. 46, comma 1 lett. r) e s), in tema di part-time: la prima lettera  stabilisce che «lo svolgimento di prestazioni elastiche o flessibili», senza il rispetto dei debiti vincoli, «comporta a favore del prestatore di lavoro il diritto  … alla corresponsione di un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno», mentre la seconda sancisce che «in caso di omissione relativa alla sola collocazione temporale dell’orario» il giudice non solo determina tale collocazione, ma liquida, per la fase precedente alla sentenza, oltre alla retribuzione «un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno, da liquidarsi con  valutazione equitativi».

Sono, invece, sanzioni riconducibili all’astreinte quelle di cui all’art. 23 comma 6, dove punisce l’utilizzatore che non abbia adempiuto l’obbligo di informazione già visto sopra, peraltro qui relativamente all’adibizione a mansioni superiori, certo con la responsabilità in via esclusiva «per le differenze retributive spettanti al lavoratore occupato»; nonché quelle di cui agli artt. 53, comma 3, e 54, comma 5, relativi al contratto di apprendistato e di inserimento:  in caso di «inadempimento nell’erogazione della formazione … » e, rispettivamente, «gravi inadempienze nella realizzazione del progetto individuale» i datori di lavoro sono tenuti a versare «la quota dei contributi agevolati maggiorata del 100%»

Vi sono poi delle sanzioni “multiple”, come tali classificabili sotto più di una categoria:  l’art. 36, comma 6, punisce il lavoratore intermittente che abbia opposto alla chiamata cui si era obbligato «un rifiuto ingiustificato»,  sia con la sanzione rispristinatoria di una risoluzione del contratto, sia con quella risarcitoria di «un congruo risarcimento del danno»; mentre l’art. 46, comma 1 lett. r) prevede per la già vista omissione riguardante la durata della prestazione lavorativa, oltre la sanzione rispristinatoria della conversione in rapporto di lavoro a tempo pieno, anche una  risarcitoria uguale a quella contemplata per l’omissione riguardante la sola collocazione temporale dell’orario.

   7.E. Norme previdenziali. - Certo l’autore del Libro Bianco appariva consapevole che lo spostamento della tutela dal rapporto al mercato, quale richiesto dal varo o dall’aggiornamento di contratti e di istituti flessibili, richiede  un intervento fortemente innovativo sul piano degli ammortizzatori sociali e dei trattamenti previdenziali tale da assicurare sia il sostegno del reddito, sia il continuum  retributivo  nei periodi di non lavoro. Ma con a parziale alibi lo stralcio operato sul disegno di legge originario, tutto quello che il legislatore della delega e del decreto è riuscito a fare è di introdurre un pugno di norme previdenziali, finalizzate  a chiarire  chi debba farsi carico degli oneri,  in rapporti coinvolgenti a titolo diverso più datori di lavoro (contratto di somministrazione) ; o come debbano essere calcolati contributi e prestazioni in rapporti coinvolgenti più lavoratori (lavoro ripartito).

A proposito del contratto di somministrazione, l’art. 25, etichettato «norme previdenziali», si limita ad assumere il somministratore come il soggetto cui fanno carico «gli oneri contributivi, previdenziali, assicurativi ed assistenziali», inquadrandolo «nel settore terziario» (comma 1); e l’utilizzatore come soggetto cui far riferimento per determinare il «tipo e  … rischio delle lavorazioni svolte», in merito agli «obblighi per l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali», precisandone modi e termini (comma 3). L’articolo, poi, si chiude con un rinvio, in forza del quale  «nel settore agricolo e in caso di somministrazione di lavoratori domestici trovano applicazione i criteri erogativi, gli oneri previdenziali e assistenziali previsti dai relativi settori» (comma 4).

A sua volta con riguardo al lavoro ripartito, l’art. 45, rubricato «disposizioni previdenziali», si preoccupa  di precisare che ai fini «… di ogni … prestazione previdenziale e assistenziale e delle relative contribuzioni … i lavoratori contitolari … sono assimilati ai lavoratori a tempo parziale», aggiungendo che «il calcolo delle prestazioni e dei contributi andrà, tuttavia, effettuato non preventivamente, ma mese per mese, salvo conguaglio a fine anno a seguito dell’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa» (comma1).

Rinviando, qui, per altre norme di sgravio contributivo a quanto già detto a proposito degli incentivi economici, deve essere ricordato che, rispetto al contratto di somministrazione “regolare”, scattano le “solidarietà”, di cui all’art. 23, comma 3 («L’utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali»). Mentre il contratto di somministrazione “irregolare” ai sensi dell’art. 27, comma 1, una volta seguito dalla costituzione del rapporto di lavoro a capo dell’utilizzatore, lo libera, comunque, da «tutti i pagamenti effettuati dal somministratore a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale» (art. 27, comma 2).

Né deve essere dimenticato il fatto che i dipendenti delle agenzie di somministratore godono, altresì, della copertura di cui agli artt. 5, comma 2 lett. c) e comma 3 lett. b), «a garanzia dei crediti dei lavoratori impiegati e dei corrispondenti crediti retributivi degli enti previdenziali»: copertura, questa, costituita dal versamento di un deposito cauzionale di 350.000 e, rispettivamente, di 200.000 euro per i primi due anni; e di una fideiussione bancaria o assicurativa non inferiore al 5% del fatturato, realizzato nell’anno precedente, e , comunque, ai 350.000 e rispettivamente ai 250.000 euro, a partire dal terzo anno.

A sua volta, nei contratti di appalto ai sensi dall’art. 29, comma 2 «in caso di appalto di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti»; mentre, pare essere escluso nel distacco per gli effetti dell’art. 30, comma 2 («In caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore»).

8. Lavoro privato e lavoro pubblico “privatizzato”: un ritorno al passato - Rispetto alla regola base della c.d. “privatizzazione del pubblico impiego”, la legge delega n. 30/2003 conteneva una significativa eccezione: ai sensi dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, la disciplina applicabile era quella privatistica generale, c.d. comune, salvo esplicita previsione in senso contrario («i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi di lavoro subordinato dell’impresa fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto»); viceversa, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 30/2003, la futura normativa delegata sarà applicabile, solo se ed in quanto espressamente richiamata («le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate»).

Una eccezione, questa, non prevedibile neppure tenuto conto della peculiare natura della tipologia regolata, all’insegna della flessibilità, perché l’art. 36, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, pur dedicando una distinta attenzione alle «forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale», rinviava, «nel rispetto delle disposizioni sul reclutamento del personale», all’individuazione fattane «dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa»; nonché, per la disciplina «dei contratti a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo» alla contrattazione collettiva nazionale, in applicazione della relativa legislazione così come successivamente modificata o integrata.

Certo, la c.d. “privatizzazione” non ha avuto e non ha vita facile, scontando la sua sfida ad una cultura  e prassi consacrate da secolari esperienze, tant’è che qualche mossa in controtendenza è stata pienamente avvertibile nella legislazione e nella giurisprudenza, ma nel senso di una “ripubblicizzazione” esplicita o implicita. Vale la pena ricordare la l. 15 luglio 2002, n. 145, di riforma della normativa dettata in tema di dirigenza statale dal d.lgs. n. 165/2001, che, fra l’altro, ha ribattezzato il conferimento di incarico come provvedimento amministrativo; e Corte cost., nn. 1/1999, 2/2001, 194/2001, 273/2002 – cui si è adeguata  la Corte di Cassazione sez. un., n. 15403/2003 modificando la precedente giurisprudenza di legittimità -, che hanno ricompreso nelle procedure concorsuali, a regolamentazione pubblicistica e a giurisdizione amministrativa, anche le progressioni di carriera.

Qui la cosa è diversa, perché l’eccezione di cui alla legge delega non va nel senso di una “ripubblicizzazione”, ma di una “diversificazione”, data dall’applicazione di una certa disciplina al personale delle imprese private ma non delle pubbliche amministrazioni, salvo esplicita previsione estensiva. Non si può dire, dunque, che abbia giocato una voglia di “ritorno al passato”; quanto, piuttosto, la tradizionale diffidenza sindacale verso qualsiasi strumentazione etichettabile come “precariato” o sostegno del reddito; quasi quest’ultima fosse di per sé idonea a mettere in discussione la dote più apprezzata dell’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, cioè una stabilità fino ai limiti della inamovibilità, certo assai più in fatto che in diritto. E non era certo il legislatore della legge delega a voler forzare in questa direzione, visto che già quel tanto di regolazione flessibile introdotta fatica assai a passare dalla carta alla pratica; e visto, altresì che aveva una gran fretta, sì da cercare di evitare ogni complicazione “redazionale”, quale quella di dover saggiare, volta a volta, la applicabilità della nuova legislazione anche al personale delle pubbliche amministrazioni.

Strada facendo però, cioè nel passaggio dalla legge delega al decreto, la linea di preclusione viene sì ribadita nell’art. 1, comma 2, con formula ancora più secca («il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale»), tale da far credere che sia esclusa qualsiasi eccezione; ma, poi, successivi disposti estendono alcuni istituti, come gli artt. 54, comma 2 («i contratti di inserimento possono essere stipulati da:… e enti di ricerca pubblici…») e 86, comma 9 («sia la disciplina della somministrazione… di lavoro a tempo determinato sia le sanzioni amministrative di cui all’art. 19» si applicano anche nei confronti della pubblica amministrazione).

In aggiunta l’art. 86, comma 9, salva un istituto “obsoleto” solo per le pubbliche amministrazioni («esclusivamente per loro la vigente disciplina in materia di contratti di formazione e lavoro…trova applicazione»), (vedi al riguardo anche l’art. 3, comma 63 della l. 24 dicembre 2003, n. 350); mentre l’art. 85 nell’abrogare fra le altre la l. 23 ottobre 1960, n. 1369, lascia aperto il problema se la cancellazione debba essere vera e propria, cioè tale da toglierla di mezzo per tutti, oppure… non essendo prevista esplicitamente l’estensione anche ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, per questi ultimi debba considerarsi sopravvissuta.

Lasciando all’interprete il compito di gestire questo lascito ermeneutico, qui c’è da riprendere il cenno fatto circa la progressiva consapevolezza del legislatore in merito all’ingiustificabilità di un simile gap di regimi tra “privato” e “pubblico”; tale da sottrarre proprio il “pubblico”, di gran lunga più bisognoso di una forte dose di flessibilità, alla nuova strumentazione. Consapevolezza, questa, che sbocca nella particolare procedura di cui all’art. 86, comma 8 finalizzata, né più né meno che ad una «armonizzazione»; ed, a conferma della regola generale per cui alla grande rigidità in partenza spesso fa seguito una grande cedevolezza in arrivo, si sussurra nei corridoi del Palazzo che questa procedura metterà capo non ad una proposta legislativa ma ad un accordo quadro. Se così fosse, l’interprete avrebbe un lascito ancora più pesante, perché dovrebbe verificare come e quando una legge che include ed esclude con affermazioni tagliate e nette possa essere adattata in base ad un accordo collettivo.


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